— Qui dove?
— È come un altro mondo. — A quella frase Roan guardò verso la porta. — Sarebbe inutile — lo avvertì lei. — Adesso là non c'è niente se non tenebra. La via d'uscita è un tempo, non un luogo. Ma non temere: quando verrà il momento tornerai indietro.
— E quando?
— Per quante ore dovevi dormire?
— Quarantott'ore, anche se non ho mai...
— Forse starai qui per tutto questo tempo. Chi può dirlo?
— Sei... sei certa che non resterò più a lungo?
— Certissima, sicuro. E adesso come ti senti?
Lui ebbe un sorriso timido. — Bene. Va tutto bene.
La ragazza lo prese per mano e cominciò a camminare, cosicché Roan non poté far altro che seguirla. Educatamente cercò di farsi lasciare, ma la stretta delle dita di lei era salda e il suo debole tentativo passò inosservato. Una risatina maliziosa, un rossore, il minimo cenno di pudico imbarazzo in lei, e Roan avrebbe trovato quel contatto insostenibile.
Ma lei era così a suo agio che la reazione istintiva di Roan si bloccò. E chiacchierava con tale vivacità, costringendolo a rispondere, distraendolo da ogni altro pensiero, che se anche lui avesse trovato le parole per ripeterle di lasciarlo andar via non avrebbe avuto il tempo per pronunciarle.
— Tu sei venuta nel mio cubicolo — le disse, senza fiato, mentre lei lo faceva affrettare giù per un pendio.
— Oh, sì... più spesso di quel che credi. Ti ho guardato quando dormivi. Avevi un'aria così buffa. C'è un tanagra! — S'arrestò a metà di un passo. Qualcosa fluttuò dal suo volto luminoso all'uccello che s'era alzato in volo e tornò indietro. — Sono andata a cercarti anche in ufficio. È tutto così severo e cupo, là dentro. E c'è tanta solitudine. Ma tutti voi siete gente solitaria.
— No, che non lo siamo!
— Aspetta che finisca il sogno e non la penserai più così. Vuoi vedere una magia? — Si chinò su un cespuglio e protese le sue lunghe dita sulle sottili foglie spinose. Tutte si chiusero come piccoli pugni verdi.
— Perché sei venuta a cercarmi?
— Perché tu eri pronto a domandare.
— Domandare cosa?
Lei parve non ritenere necessaria una risposta. Lasciò la sua mano e saltellò via come una cerbiatta, una volta, due volte, poi un lungo balzo che la portò oltre un torrentello. Lui lo attraversò goffamente a guado, inzuppandosi le scarpe da letto.
Quando la raggiunse, lei gli appoggiò una mano sul petto. — Ssssh!
Nel vento vibrava una voce umana, fissa su un'unica nota cristallina; ad essa se ne aggiunse una seconda, in chiave di basso; poi una terza dolce e da contralto, ed esse si fusero in un accordo musicale. Quindi le tre note cambiarono, altre salirono di volume pian piano e nell'aria si levò un canto corale morbido come l'aurora, i cui colori si mescolano con tale armonia che il loro brillante effondersi affascina lo sguardo.
— Come ti chiami? — chiese d'un tratto lui.
— Quale nome credi che mi si adatterebbe meglio?
— Fiore! — fu il suo ansito, mentre gli strani istinti che emergevano in quel sogno rivendicavano se stessi. E di colpo si sentì libero dall'imbarazzo di cui le usanze avevano rivestito quella parola.
— E tu sei Roan. E un roano è un cavallo, con il vento nella criniera e il tuono negli zoccoli, dolce di muso, selvatico negli occhi, tutto coraggio e velocità.
A Roan parve il ritornello di una canzone, e tuttavia si adattava bene alla voce... a quella di lei. Batté i piedi al suolo per far schizzare via l'acqua dalle scarpe, e quasi nitrì deliziato al pensiero del tuono nei suoi piedi. Lei lo prese di nuovo per mano e corsero giù lungo il versante dell'altura. Più avanti il coro finì in uno scroscio di risa divertite.
— Chi sono? — la interrogò lui.
— Vedrai. Eccoli... laggiù!
Dove le collinette confinavano con la foresta c'era un laghetto, chiaro e profondo. Sotto gli alberi e su per il versante erano annidate delle piccole costruzioni. Avevano pareti di tronchi e tetti di fibre vegetali. Erano basse, ampie, e sembravano parte stessa delle colline e dei boschi. Nella radura fra il versante e la foresta, accanto al laghetto, c'era una lunga tavola attorno alla quale sedeva la gente che Roan aveva sentito cantare. Lo capì dal suono delle loro risate.
— Io non... non posso! — rantolò miseramente.
— Perché? Cosa vedi di cui aver paura? — domandò Fiore.
— Ma non hanno alcun pudore!
— Ci sono soltanto due cose davvero indecenti: la paura di se stessi e la corruzione. E qui non vedrai nulla di questo. Guardali.
— Tutte quelle braccia e quelle gambe — mormorò lui. E i colori... un uomo rosso e verde, una donna azzurra... e stanno mangiando.
— Un abito arlecchinato e un altro azzurro. È bello indossare vesti colorate e stare insieme a tavola.
— Ci sono cose che uno non si sognerebbe mai di fare.
— Oh, no! Non c'è nulla che ti sia proibito sognare. Su, andiamo da loro.
Roan la seguì fin sul prato. L'intera tavolata gli diede un caldo benvenuto.
VI
Al tramonto del secondo giorno Roan e Fiore s'incamminarono in un'ombrosa radura della boscaglia. Gli indumenti da letto del giovane erano stropicciati e malconci, perché non si adattavano alle attività manuali all'aperto e lui s'era rifiutato di levarseli. Tuttavia non gli importava degli strappi e delle macchie, visto che nessun altro ci badava. Le scarpe da letto erano andate in pezzi, ma lui sentiva che se gli avessero ordinato di non poggiare più i piedi sull'erba o sulla sabbia sarebbe morto. La Terra gli appariva ora ben più di un semplice posto in cui dislocare città precostruite. Aveva lavorato fino a ferirsi le mani, riso fino alle lacrime, dormito fino a svegliarsi fresco e pieno d'energia. Aveva aiutato a segare legna, aveva costruito, pescato, cantato. Una sorpresa dopo l'altra, e la più grande di tutte: i bambini.
Non aveva mai visto bambini di quell'età. Né aveva mai saputo da dove venissero, salvo il fatto che a dodici anni lasciavano il brefotrofio per essere assegnati ciascuno a una famiglia. Non sapeva in che modo potessero nascere. Ciò che sapeva era che ogni bambino era educato in vista del posto che avrebbe dovuto occupare nella sua Famiglia e nella Stasi, e che in quel periodo dell'esistenza lui non aveva fatto che apprendere come muoversi, come parlare, come lavorare e come pensare. A dodici anni un bambino veniva inserito al suo posto in una casa, e poiché non vi trovava molte differenze con il brefotrofio cui era abituato, quanto accadeva poi gli riusciva gradito non tanto grazie all'educazione paterna quanto a quella impartitagli da una squadra di specialisti.
Ogni Famiglia aveva un figlio maschio, una figlia femmina, un incarico ereditario, ambizioni e scopi ugualmente propri ed ereditari. Era a quel modo che l'economia poteva essere tenuta sotto controllo e in perpetuo equilibrio. Era a quel modo che la società poteva crescere i giovani e dar loro la sicurezza di vita.
Ma lì, in quel sogno...
Pargoletti vocianti che si cacciavano dappertutto, prendendosi una scoppola, bruciandosi le dita, e bambini e bambine che si tuffavano senza nulla addosso nel laghetto. Si picchiavano, e più tardi li si vedeva ridere insieme. E il tutto mentre gli adulti sudavano sul lavoro, imprecavano, cantavano, e non nascondevano né la tristezza né l'allegria. Era una comunità disordinata e vivace, fatta per gente forte che sapeva divertirsi e non aveva paura quand'era costretta a preoccuparsi. Era un posto barbaro e affascinante.
E quella gente aveva un potere, quel potere... perché ogni tanto Roan li aveva visti fare le stesse cose di cui era stata capace Fiore. Sembravano avere qualcosa di simile al transplat, dato che ricevevano ogni cosa dovunque volevano riceverla. Potevano allungare una mano nel niente e tirarne fuori un pezzo di pane, un utensile o un libro. Un uomo poteva tendere l'orecchio di lontano verso casa e sapere cosa gli stava cucinando sua moglie (mangiavano insieme, anche se si appartavano per altre funzioni corporali) o sentire una nuova canzone cantata chissà dove, o venire a sapere le ultime novità su qualcosa che lo interessava.
Sembravano abbastanza propensi a spiegargli come tutto ciò era possibile, ma le sue domande non lo condussero a niente di concreto. Era come se gli fosse occorsa una nuova lingua, o forse un nuovo modo di pensare, prima che potesse assorbirne soltanto l'essenza. E nonostante i loro poteri avevano le mani piene di calli. Usavano fuochi di legna e mangiavano ciò che dava la terra in cui vivevano. La vita attiva era il fattore che li manteneva allegri e in buona forma fisica; non permettevano che il potere Psi trasformasse, come un cancro, le loro necessità in vizi.
Così Roan s'avviò nel crepuscolo, con Fiore al suo fianco, riflettendo su tutte quelle cose e cercando di dar loro una forma che gli permettesse di capirle. — Ma naturalmente tutto questo non è reale — disse all'improvviso.
— Solo un sogno — annuì Fiore.
— Mi sveglierò.
— Molto presto. — Lei rise e lo prese per mano. — Non fare quella faccia così triste; non saremo mai troppo lontani da te.
Roan non riuscì a ridere con lei. — Lo so, ma sento che questo è... non ho le parole, Fiore. Non so come dirlo.
— Allora non provarci. Non ancora.
Prima di rendersene conto Roan l'aveva afferrata per le spalle. — Fiore, ti prego... lasciami restare qui.
Lei si contorse. — Non rendermi triste — mormorò.
— Perché non posso? Perché?
— Perché questo è il tuo sogno, non il mio.
— Non voglio perderti! Ti terrò stretta a me e non mi sveglierò! — esclamò. Ma un attimo dopo cadde in avanti, abbracciato al nulla. Fiore lo fissò con calma da dieci passi di distanza.
— Non rendermi triste — gli disse ancora. — Mi fa male respingerti a questo modo.
Lentamente lui si trasse in piedi, tese una mano verso la ragazza e borbottò, di malumore: — Va bene. Non voglio rovinare tutto.
Nelle prime ombre della sera tornarono in silenzio verso il lago, dove i raggi del sole insinuandosi fra le colline spargevano ancora chiazze di luce vivida.
— Fra quanto mi sveglierò? — chiese, sentendo che non poteva far altro.
— Appena sarà il momento — disse lei. Gli lasciò la mano, intrecciò il braccio al suo e gliela riprese. Uscirono nella luce della riva erbosa.
Roan lasciò vagare lo sguardo sulla spianata e sulle abitazioni, cercando di vedere il luogo come l'aveva visto quando ancora non gli era così familiare. Ma era impossibile. Lì davanti a lui c'era la pentola che avevano usato per fare lo zucchero d'acero, e gli parve di rivederla bollire. Rivide l'avidità con cui i cani s'erano gettati alla rincorsa dei pezzi di zucchero caramellato, abbaiando, uggiolando, e tornando freneticamente indietro per averne ancora. E più in là c'era un campo su cui riposava ancora in una crosta bianca un ricordo dell'ultima nevicata di primavera. C'era la palude erbosa, dove le anatre dal collare nero e dalle ali di madreperla riposavano nei loro nidi. E c'era...
— Ehi! — D'un tratto Roan si scostò da Fiore e corse verso la riva del lago. — Ehi, tu! — gridò. — Fermati, dico a te! Aspetta!
Ma il giovanotto non si voltò. Era alto circa quanto Roan, con lunghi capelli biondi, e su una delle sue guance era visibile una piccola cicatrice. Più avanti, nell'acqua, ci fu un biancheggiare di membra candide e una ragazza rise.
— Tu, con la cicatrice — ansimò Roan. — Il tuo nome. Devo sapere il tuo nome...
Il giovanotto lo sentì e si volse, ma lo sguardo di Roan corse alle spalle di lui, sul volto della ragazza che sguazzava nell'acqua, e incontrò gli occhi di sua sorella Valerie.
E quella fu la fine del sogno.
L'unica cosa buona che gli accadde in seguito fu che sua Madre aveva tolto il blocco alla serratura del cubicolo. Il luogo gli parve il più deprimente in cui un essere umano avrebbe potuto risvegliarsi: le pareti lo stringevano, l'aria filtrata lo fece tossire, non c'era spazio e non aveva finestre. Il paravento per vestirsi gli urtò su una tempia e lui lo scaraventò al suolo con violenza, voltandogli le spalle sia fisicamente sia mentalmente. Sentiva che se si fosse fermato a riflettere su ciò che quell'orrore cilindrico simbolizzava sarebbe impazzito, e avrebbe dilaniato a morsi il suo cuscino come un cane. La colazione fu un'oscenità. Il suo abito cono-su-cono... be', se lo mise, conscio che se avesse sfogato il disgusto che gli dava non sarebbe neppure andato in ufficio.
La Nubile Corson girò lo sguardo su di lui solo per il tempo d'identificarlo, poi immerse il suo volto flaccido in una pila di documenti finché Roan non fu entrato nell'ufficio. La vista della scrivania, delle apparecchiature che sprizzavano efficienza, delle pareti nude e del soffitto basso in modo opprimente gli diede ancora un fremito di rabbia. Ma si sentiva soltanto in preda a una grande stanchezza quando una voce ben nota latrò dall'interfono: — Roan Walsh, vieni qui.
Ancora guai. Fuori dalla prigione, dentro il tribunale.
Dovette inalare profondamente quattro volte: tre respiri per riassumere la compostezza e un gemito. Il pannello scorrevole lo lasciò passare nell'ufficio adiacente. Suo padre sedeva appoggiato allo schienale, la barba rigida come scolpita nel granito. Davanti a lui c'erano diversi fascicoli appena sputati fuori dal computer, e dall'espressione si sarebbe detto che l'uomo ne avesse assaggiato uno trovandolo inaspettatamente piacevole al gusto.
— Buona Stasi, Privato.
Il vecchio annuì appena. — La tua assenza mi ha costretto a prendere in mano operazioni che sarebbero spettate a te. Scoprirai ciò che ho fatto eaminando i rapporti registrati successivamente ai tuoi. — Con una mano sparpagliò i documenti che aveva sulla scrivania. — Ricontrollando questi ho notato con mia sorpresa (una piacevole sorpresa, posso tranquillamente aggiungere) che hai fatto una fenomenale quantità di lavoro. Kimberley, Krasniak, quel magazzino in Polonia... e malgrado la tua gran velocità è stato un buon lavoro. L'ho investigato nei dettagli.
Il tono dell'ultima frase non piacque affatto a Roan. Unì le mani dietro la schiena, abbassò il capo in rispettosa attesa e strinse i denti.
— Dalla mia indagine è emerso — declamò la voce dell'angelo sterminatore — che il lavoro dell'altro pomeriggio è stato fatto esattamente in quattro ore, tre minuti e trenta secondi. Molto bene. Sembra tuttavia che il tempo totale delle operazioni ammonti a cinque ore, quarantotto minuti e una manciata di secondi. In altre parole... — batté un dito sulle carte, trapanò Roan con lo sguardo e ruggi: — Qui sembra che un'ora e quarantacinque minuti siano misteriosamente scomparsi!
Roan si leccò le labbra e balbettò: — C'è stata la pausa di mezzogiorno, Privato.
Il Privato si riappoggiò all'indietro ed esibì un sorriso lupesco. — Splendido, mio giovane ed efficiente scoiattolo. Superbo! E di quanto è la pausa di mezzogiorno concessa a chi occupa il nostro livello nell'organizzazione?
— Quaranta minuti, Privato.
— Proprio così. Ora tutto ciò che ci resta da fare è di esaminare quest'ora e cinque minuti. Sessantacinque preziosi insostituibili minuti, che neppure le risorse della stessa Stasi possono restituirci. Oltre un'ora che esula dalle tue registrazioni, e dunque uno o più carichi di merci entrati senza documentazione nei magazzini. O forse sono entrati ed io, distrattamente, non me ne sono accorto?
— No, Privato.
— Allora, o quel pomeriggio hai effettuato transazioni o affari senza debitamente registrarli (il che sarebbe un'imperdonabile trascuratezza) oppure il tempo è stato sprecato oziosamente in questioni tue personali, con l'intenzione di fartelo ugualmente pagare dalla ditta. Il che è un furto.
Roan non disse nulla, salvo che a se stesso, e questo fu con spassionato distacco: Penso che riuscirò a sopportare tutto ciò per quattro minuti, trentadue secondi e tre preziosi insostituibili decimi di secondo.
— Se ne delinea un quadro tutt'altro che piacevole — disse il Privato in tono conversativo, e sorrise. — Le registrazioni mi danno la possibilità di scegliere fra tre soluzioni diverse. La prima: il tempo rubato può essere restituito. La seconda: il corrispettivo in denaro può esserti detratto dalla paga. La terza: posso deferirti al Tribunale Centrale con un'accusa di furto e lavarmi le mani di te. In tal caso ti darebbero un arco e una freccia, e ti abbandonerebbero a vagare nelle zone selvagge fra gli insediamenti della Stasi. Le tue considerevoli abilità ti permetterebbero di sopravvivere a lungo. Due o tre giorni. Forse anche una settimana.
Meno diciotto, meno diciassette, meno sedici... stava contando in silenzio Roan.
— Comunque, voglio darti ogni possibilità di dimostrare che non hai commesso questo... questo crimine spaventoso. Porta questi documenti nel tuo ufficio. Hai tempo fra adesso e le ore 16,00 (e intendo le 16,00 precise) per revisionare, in ufficio o fuori, ogni errore che tu abbia fatto e rinfrescarti la memoria, nel caso che tu abbia eseguito lavoro utile per la ditta in ognuno di questi minuti perduti. Ogni alterazione che apporterai agli orari, ovviamente, verrà controllata al decimo di secondo. Fino alle 16,00... buon lavoro a te!
Piuttosto stordito, Roan trotterellò alla scrivania e raccolse l'incartamento. — Grazie. Buon lavoro, Privato. — E a passi goffi indietreggiò fino alla porta.
Perché, si chiese, stava sopportando tutto ciò?
Perché non c'era altro posto dove vivere, ovviamente.
Ma c'era...
No, non c'era. Quello era stato un sogno.
Seduto alla sua scrivania sentì la rabbia che saliva in lui fino ad accecarlo.
VII
Il videophon lo riportò alla realtà. Accese lo schermo, pronto a sbranare a parole chi lo chiamava, chiunque fosse. Ma apparve il volto di Valerie.
— È quasi l'ora della pausa di mezzogiorno — disse lei, evitando d'incontrare il suo sguardo. — Potresti... non ti disturberebbe se...
— Stesso posto, d'accordo?
— Oh, grazie, Roan!
Lui le grugnì un saluto e spense l'apparecchio.
La ragazza non era presso i transplat del Grosvenor Center quando lui vi giunse, cosicché si diresse subito al parco. Valerie lo stava aspettando lì. Si lasciò cadere nel separé accanto a lei, appoggio il mento sulle mani e... dannazione a quei passanti! Non avevano mai visto le mani di qualcuno in vita loro?
Dopo un poco, tuttavia, sedette in posa decorosa. Valerie irradiava attorno un tranquillo silenzio. Si chiese se avesse dovuto parlarle del giovanotto del sogno, e quasi ne rise. Ma non poteva ridere in pubblico davanti a lei. Indecoroso. Nel sogno inoltre c'era stato amore. Valerie, nella sua pedante ristrettezza di vedute, era riuscita a innamorarsi. E va bene, pensò, dille che non sei ancora riuscito a trovare quel tipo, dille che la capisci, e tanti saluti. Tu hai ben altre preoccupazioni.
Si volse a guardarla. — Ascolta, mi spiace ma non sono riuscito...
— Lui si chiama Prester. — Val si accostò al pannello di separazione e sussurrò: — Oh, Roan, che imbarazzo quando mi hai vista lì nell'acqua. Loro non intedevano lasciare che tu mi vedessi affatto. Oh, chissà cos'avrai pensato!
— Diciamo che non ho creduto ai miei occhi — borbottò lui, distratto.
— Lo so! — disse disperatamente Val. — Sono perfino sorpresa che tu abbia accettato di venire qui.
— Che stai dicendo... ah, il laghetto! Santo cielo, soltanto in questo momento mi rendo conto che tu eri... che realmente tu... oh, lasciamo perdere. Val, sono davvero contento che tu l'abbia trovato. Prester, eh? Un tipo simpatico, si.
Il volto di lei s'illuminò di colpo. — Roan... dici sul serio? Io non sono una... svergognata?
— Tu sei grande, e sei la sola persona che conosco in questo sterile mondo bigotto che io abbia visto vivere un momento di vita vera. Io sono felice, Val! Tu non sai... non puoi... quello che mi è successo. Abbastanza da riempire una dozzina di sogni. Ed è stato come un sogno, anche se... voglio dire, c'erano dei frammenti di vita reale, cose di cui mi aveva parlato Nonnina, cose che avevo visto da sveglio: una ragazza che conobbi per caso sbagliando il numero del transplat e... ma io credevo che fosse soltanto un sogno. Capisci? Volevo crederlo, suppongo. Dovevo credere a Fiore, e lei ha detto che era un sogno. — Cieli immensi, stava parlando come uno screanzato e di fronte a sua sorella!
Ma Val non aveva fatto una piega; il rossore delle sue guance era eccitazione e non vergogna. Nei suoi occhi brillava una luce lontana. — Lei è adorabile, Roan, così bella. E ti ama. Io lo so.
— Tu che vuoi saperne — fu costretto a sogghignare lui. — Oh, Val... quella pentola di zucchero d'acero!
— Mmh... e il campo d'avena!
— La lunga tavola di assi, e le canzoni!
— Sì, e i bambini... tutti quei bambini!
— Cos'è successo? — gemette lui. — Come può succedere questo?
Val sussurrò con fervore: — Potremmo essere impazziti tutti e due. Oppure il mondo intero si è spaccato, e noi siamo precipitati giù dentro la spaccatura fino a... o invece è stato davvero un sogno, e l'abbiamo sognato in due. Ma non m'importa, è stato bello e... e se tu avessi detto che io ero una... a causa di... avresti distrutto ogni cosa e mi avresti ucciso. Allora va tutto bene per te, Roan, va davvero tutto bene? È così sul serio?
— Sei una bellissima sorella. Te lo dico come fratello: sul serio.
— Ooooh! — gemette Val, arrossendo di piacere. Poi, con un'ombra di rammarico: — Sono felice di non pensare come te.
— Uh... e perché?
— Comunque accada, comunque possa funzionare, è un sogno. E se non lo fosse, cos'altro potrebbe essere? Fai come me, Roan: l'ho sognato, e per tutto il resto della mia vita ricorderò. Ma... spero che questo sogno torni ancora.
— Se scopro come funziona, cosa lo fa accadere e perché, stai certa che tornerà. Perciò sii contenta se io penso nel modo in cui penso.
— Se lo scopri... mi porterai là con te?
— Se non potessi portare anche te — disse lui con calore, — non ci andrei neppure io. Questo ti fa star meglio?
— Credo che ti darò un bacio!
L'idea di una cosa simile in un posto come quello lo fece scoppiare a ridere, e accorgendosi che stavano attraendo alcuni sguardi Valerie sibilò: — Taci, Roano... dagli zoccoli di tuono! — E quella frase, che Fiore aveva canticchiato, gli fece balzare il cuore in petto.
Lei lo sbirciò timidamente: — Sono spiacente, Roan.
— Non esserlo — ansimò lui. — Per un attimo, è stato come se lei fosse qui. — Alzò le mani, le chiuse a pugno e le guardò, poi le nascose di nuovo. Fiore... be', dopo le 16,00 non gli sarebbe mancato il tempo per cercarla. — Val...
— Non sapevo che si potesse essere così felici — disse lei. — Che c'è, Roan?
— Niente. Solo che ora sono veramente in ritardo — borbottò, cambiando improvvisamente idea. Non era il momento di farla partecipe dei suoi guai. Ci avrebbe pensato il Servizio Notizie, verso le 16,12. Nel frattempo, meglio lasciarla di buonumore. Si avviarono alla zona dei transplat.
— Roan, dobbiamo venire qui ogni giorno e parlarne ancora. Non so nulla di quello che hai fatto là, e tu non sai ciò che ho fatto io. Ad esempio quando ho...
— Sicuro, dovremo farlo, certo — disse lui. — Spero soltanto d'essere qui anche domani.
Val si fermò stupita. — C'è qualcosa che ti preoccupa?
— Sali sulla tua piattaforma. Va tutto bene. Su, fa presto.
Lei compose il numero, salì e scomparve. Roan restò lì a fissare lo spazio vuoto dove c'era stato il suo volto ansioso, finché un altro viaggiatore non vi si materializzò. Sperava di non averla impensierita troppo.
A passi lenti tornò indietro e sedette su una panchina. E fu allora che ebbe la sua grande idea.
* * *
— Chi è, a quest'ora? — La voce, sottile e ansiosa, gli parve ancora più vecchia.
— Sono io, Roan — rispose dal cortile.
Lo spioncino della porta si aprì. Il tono della donna suonò più gentile e sicuro. — Sei sempre il benvenuto qui, ragazzo. Però sapevi che avresti potuto avvertirmi prima. Adesso fai il bravo figliolo e fila via per un'oretta. Poi potrai tornare a restare finché vorrai. D'accordo?
— D'accordo un petalo! Io non ho un'ora. Vieni fuori, altrimenti vengo dentro io.
— Bada come parli con me, testa vuota d'un beccaccino, o ti strino via la parrucca con la mia lima da unghie!
Nell'istante in cui lei aveva cominciato a strillare, lui cominciò a ruggire: — Vestita o non vestita, vieni fuori di lì. E se ti tappassi la ciabatta per dieci schifosi secondi risparmieresti di sprecare tempo!
Quando smisero di gridare entrambi ci fu una pausa di silenzio teso. D'improvviso Nonnina scoppiò a ridere: — Ragazzo, dove hai imparato a parlare in questo modo?
— Per anni ho sentito parlare te, Madre di mio padre — borbottò lui, diffidente. — Anche se mi accorgo soltanto ora di non averti mai ascoltata veramente. In quanto al vestiario... se sei appena decente, stai certa che non mi scandalizzo.
— Screanzato! — La donna uscì e chiuse la porta dietro di sé con un calcagno. Indossava un enorme accappatoio d'un agonizzante viola, e sembrava essere a piedi nudi. I suoi capelli, invece d'essere sollevati e riuniti dietro la nuca, le pendevano sciolti come quelli d'una Nubile. Roan s'irrigidì per un istante, poi lei se li gettò indietro con uno scatto della testa e disse: — E allora? — La sua voce aveva perso del tutto il placido tono mielato.
Lentamente lui sorrise. — Lo screanzato ti preferisce così come sei.
La donna sbuffò, ma parve compiaciuta. — Ce la stai mettendo tutta per non farti schizzare gli occhi dalle orbite, invece. Be', hai scoperto il mio segreto. Ma alla mia età non ho forse diritto a una piccola eccentricità? — chiese in tono di sfida.
— Hai vissuto abbastanza da meritarti qualche privilegio, suppongo.
— Andiamo dentro. — La donna attraversò il cortile. — Molta gente non può o non vuole capire che io ho trascorso solo l'ultima parte della mia vita in quell'ingessatura cono-su-cono. Chiunque altro ci è praticamente nato dentro. Be', a me non piace. Diavolo, ti incapsula in un modo che non riesci neanche a distinguere un uomo da una donna! — Sbuffò. — Ai miei tempi si veniva educati in un altro modo. — Aprì una porta nell'angolo di destra. — Per di qua.
La stanza in cui entrarono aveva un'insolita forma a triangolo isoscele, e Roan non l'aveva mai vista prima. — Cos'è successo alla tua voce, Nonnina? Sei sicura di sentirti bene?
Nel familiare mormorio talco-e-lontananza lei rispose: — Vuoi dire che preferisci il mio sussurro sfiatato? — Poi, quasi stridula: — Lo tengo da parte per ricevere gli ospiti. Devo farlo. Nessuno mi prende per quello che sono se uso il mio tono naturale. Tutti pretendono di vedermi come una colonna di rispettabilità, e Dio solo sa quanto mi pesa. Qui dentro fa caldo, eh?
Lui annuì appena, attese che si fosse seduta e poi la imitò. — Sai perché sono qui? A causa di un sogno.
La donna lo scrutò più da vicino: — Hai dormito male?
— Quello non era un sogno.
— No? E che altro, allora?
— Sono qui per scoprire cos'è successo. E dov'è successo.
Lei si riassettò il bordo dell'accappatoio. — Il fatto che tu abbia svelato questo piccolo segreto della mia vita non ti autorizza a frugarci dentro in cerca di chissà cos'altro. Cosa ti fa pensare che non fosse un sogno?
— Una persona normale e in buona salute non dorme per due giorni di fila. E inoltre c'era Valerie. L'ho vista in quel posto, proprio all'ultimo momento.
— Hai l'aria d'incolparne me. Certi sogni... be', capitano — borbottò la donna. Poi rise. — E sei venuto a compiere giustizia su di me?
— Cosa?
— Offesa al tuo decoro di fratello, pudore e tutto il resto?
— Valerie è più felice di quanto lo sia mai stata in vita sua, e così innamorata che forse non ci vede chiaro. E io sono felice per lei.
— Ah! — La donna sorrise. — Non vi si può definire due conformisti, certo. Capisco. Dunque, se ho afferrato il nocciolo della cosa, tu vorresti scoprire dove sia questa terra di sogno e tornarci, portando tua sorella con te.
— Non è così semplice — disse lui. — Quello di cui ho bisogno è uno dei tuoi operatori di telecinesi. Voglio dire adesso.
— Il meglio che posso scovare per te è una ragazzina che riesce a far oscillare il braccio di un bilanciere a distanze inferiori ai cinque metri.
Lui non tentò neppure di nascondere la sua delusione.
Le labbra della donna s'incresparono pensosamente. — Come ti è venuto in mente di tirare in ballo me in questa faccenda?
— Stiamo perdendo tempo — mormorò lui. — Ho pensato che dovevi sapere qualcosa, visto quello che hai detto l'ultima volta che sono stato qui: il transplat che sarà sorpassato, la gente che può teleportarsi dovunque, le comunicazioni a distanza senza apprecchiature. Quando me ne hai parlato avevo già visto due volte una persona spostarsi con la teleferesi. E da allora... — Ebbe un brivido. — Tu devi saperne qualcosa. E forse puoi dirmi perché io sono stato coinvolto in questa faccenda.
— Vediamo di tornare al concreto. Cos'è tutta questa fretta che hai addosso?
— Ho un appuntamento fra... — controllò l'orologio — meno di due ore. E per me può voler dire la rovina se non troverò un aiuto.
In brevi parole le spiegò che il Privato, pur senza averlo detto chiaramente, lo sospettava di qualche attività illecita e non avrebbe esitato a mettere in atto le sue minacce.
— Hai ragione — disse lei dopo un poco. — Credo che abbia paura di te, anche se non so perché dovrebbe essere così spaventato. È proprio come suo padre, quel vecchio grassone che... — S'interruppe con un sussulto quando la mano di lui le calò su un polso.
— Sono cose che non posso ascolatare. Non ora.
— Come vuoi. — La donna annuì con sorprendente dolcezza. — Scusami. Dunque, se tu avessi uno dei miei TC che ne vorresti fare?
Roan si piegò in avanti con i gomiti sulle ginocchia, lasciando le mani guantate in piena vista. — Fare? Vorrei prendere questa società bigotta e rimandarla a vivere nei boschi. Vorrei che i genitori allevassero i bambini nati da loro. Vorrei mettere sottosopra la Stasi stessa e scuoterla fino a farla sanguinare, perché la gente impari a vivere daccapo.
Gli occhi di Nonnina ebbero un lampo. — Perché?
— Potrei raccontarti che voglio il bene della gente... visto che tu sei passata attraverso i cambiamenti che ci sono stati e puoi riuscire a criticarli dall'esterno. Ma non voglio dirti niente del genere. No... la verità è che io desidero vivere a quel modo, avere figli e vederli correre a piedi nudi sull'erba, lavorare e sudare, e svegliarmi al mattino e vedere il cielo libero fuori dalla finestra.
«Speravo di poter ritrovare la gente che ho sognato. Ho perfino pensato di andarmene nelle zone selvagge fra le città e cercare di vivere in quel modo. Ma se ci provassi, avrei sempre paura che i sorveglianti o i cercatori di miniere mi trovassero e mi riportassero indietro. La Stasi non tollera che la gente viva così. Di conseguenza bisogna costringere la Stasi a lasciarci vivere.
Fece un profondo respiro. — Adesso la Stasi è costruita intorno al transplat. Non ci può essere un metodo più efficiente e migliore. Ma se oggi tornassi in ufficio e dichiarassi d'aver lavorato segretamente per svilupparne uno... se avessi uno dei tuoi telecinetici per fargli trasferire oggetti qua e là per l'ufficio, e dicessi di avere una macchina che gli permette questo... allora il Privato mi dovrebbe ascoltare. Avrei salvato il mio lavoro e potrei disseminare questa gente nella nostra società fino a cambiarne del tutto la cultura. E un giorno sarei io il Privato Walsh, alla Walsh & Co. E allora... Stasi, addio!
— Sai una cosa — disse lei, — ti voglio bene.
— Anch'io — mormorò lui, colpito. — Aiutami, ti prego.
Lei si alzò e gli strinse un braccio con le dita ossute. — Dovrò pensarci. Vedi, se tu agissi a questo modo non cambieresti molto le cose. Il vecchio, tuo padre, non comprerebbe a scatola chiusa un trucco da salotto. Vorrebbe vedere la macchina.
— Farò quel che potrò. Puoi mettermi in contatto con uno dei tuoi... come li hai chiamati?
— TC — rispose lei, distrattamente. — Ma si dà il caso che io abbia qualcosa di molto meglio di ogni TC. Che ne diresti di un transplat senza piattaforme... Un trasferitore di materia capace di teleportare gli oggetti senza apparecchiature visibili al luogo di partenza e all'arrivo?
— Una cosa simile non esiste, Nonnina.
— E cosa ti autorizza a dirlo?
— È una vita che lavoro con i transplat, ecco cosa. C'è un fattore che limita la trasmissione di materia: deve avvenire in un campo planetario, deve avere una centrale d'energia, deve avere piattaforme costruite con materiale non-trasmettibile, e deve...
— Non insegnare a me come funziona il transplat! — sbottò lei. — Supponiamo che si possa costruire un'apparecchiatura basata su un principio diverso: una pompa d'energia che attragga invece di spingere, come uno specchio che assorba invece di riflettere.
— Ma è una legge fisica che non esiste. Non capisci che io lo so?
— In tal caso tieni gli occhi bene aperti perché quella dannata macchina tu stai per vederla! — La donna andò all'angolo più interno della piccola stanza e colpì con un calcetto una piastra a livello del pavimento. L'intera parete si sollevò rientrando nel soffitto, rapida e silenziosa. Si accesero delle intense luci bianche.
Il locale che era apparso sembrò a Roan un laboratorio. C'erano apparecchi che aveva visto soltanto in certe fabbriche e ce n'erano altri che non aveva mai visto. Per lo sbalordimento i suoi pensieri andarono in stallo.
La donna scese alcuni gradini e andò alla parete più lontana. Buona parte di essa era composta da pannelli indicatori, e al centro campeggiava una consolle di comando. Sopra le file di cursori c'era un largo schermo video insolitamente ricurvo. Nonnina (ora stentava a darle quell'appellativo) vi batté sopra un dito.
— Visione tridimensionale. C'è un servo-robot identico a questo su una collina, a quaranta miglia da qui. Si lavora in duplex — disse.
Roan le si avvicinò, esterrefatto. La vide sedersi ai comandi di fronte allo schermo e cominciare a regolare cursori stranamente elaborati.
— Ti spiego come funziona — disse la donna in tono astratto, controllando l'accensione degli indicatori. — In parole semplici la teoria è questa: fai partire una linea da questa apparecchiatura e una linea dall'altra. Dove si intersecano c'è il tuo punto di trasmissione. Poi traccia altre due linee, facendole intersecare dove vuoi, e quello è il punto di arrivo. Quando hai prestabilito i due punti, visionandoli sullo schermo, dai energia e il trasferimento avviene all'istante. La differenza con il transplat è che la materia non viaggia sotto forma di energia, bensì cessa di esistere al punto di partenza, e per la legge della conservazione riappare a quello di arrivo. Oppure puoi dire che lo spazio fra i due punti è stato annullato.
— Mostrami come funziona — sussurrò Roan.
— Va bene. Nomina un oggetto che vuoi ricevere qui.
— Il mio vecchio portafoglio. Nella scrivania dell'ufficio, cassetto in alto a sinistra. Uh... il cassetto è chiuso.
— Qual è la matrice?
Lui le diede le coordinate dell'indirizzo. La donna le batté su una pulsantiera e lo schermo si accese. Ciò che vi apparve era un'unità abitativa della Stasi vista dall'esterno. Mosse poi due cursori e la visione si avvicinò, i muri svanirono, alcuni locali parvero venire assorbiti l'uno dietro l'altro e infine fu inquadrata una scrivania.
— È la tua?
— Sì — disse raucamente lui. — Bello davvero come raggio-spia. Tu...
— Ancora non hai visto niente — lo interruppe lei. Premette un interruttore e Roan sentì i quieti rumori ben noti degli uffici. Mosse poi un diverso cursore, e all'improvviso la visione penetrò all'interno del cassetto. Il buio lasciò il posto a una luce azzurrina, e il portafoglio fu inquadrato in un reticolo che lo centrava. La donna passò poi a un'altra serie di comandi e la scena scomparve.
— Ora localizziamo il punto di ricezione — mormorò. Sullo schermo sfilarono immagini confuse, un garbuglio di linee colorate e poi d'un tratto ci fu la stanza in cui loro si trovavano, vista da un punto a livello del soffitto e così nitida che Roan trasalì. D'istinto alzò gli occhi in cerca dell'obiettivo che lo inquadrava, ma non vide niente.
— Protendi la tua sciocca mano — ordinò Nonnina.
Roan ubbidì. La scena inquadrata si abbassò finché la sua mano fu al centro di un altro reticolo in primo piano. Agitò le dita, senza però percepire nulla di palpabile. La donna riportò sullo schermo l'immagine precedente, ma sovrapposta a quella, e nell'attimo in cui i reticoli combaciarono premette un pulsante.
Il portafoglio cadde in mano a Roan.
Lei spense l'apparecchio e si girò a guardarlo. — Ebbene?
— Fantastico — borbottò lui. — Ma perché mi hai mostrato tutto questo?
— Che vuoi dire?
— Non è così che funziona la telecinesi. Certo, ho avuto il mio portafoglio, ma non con quel sistema, come avevi detto tu.
— Ah, no? Sentiamo, secondo te come hai avuto il portafoglio?
Lui esaminò il macchinario con attenzione. — È una specie di amplificatore... sì, un elaborato ricercatore d'immagini, ma nient'altro. È il paravento dietro cui si nasconde il tuo amico TC, vero?
— Pensi sul serio che io abbia un telecinetico nascosto qui attorno, e che lui abbia lavorato su delle immagini video?
— Tu sei la TC!
Lei s'appoggiò alla consolle, rassegnata. — Be'... se non puoi vincerli fatteli amici, dicevano gli antichi Romani. E se tu dici che è così, ragazzo, allora sia pure così.
— E perché non mi hai detto che eri così fin dall'inizio? — borbottò lui, controllando l'orologio. — Allora, adesso che facciamo?
— Aspetta un momento... io ho quello che fa per noi. — Si alzò e gli fece un sorriso. — Sacrificherò il modello pilota; sei abbastanza robusto da riuscire a portartelo dietro.
Andò ad aprire un largo sportello a muro e ne trasse fuori l'estremità di una cassa metallica. Roan lo aiutò a sollevarla e la piazzò su un bancone. Era un'apparecchiatura massiccia e poco complicata.
— Lo userò soltanto per localizzarti — disse lei. S'avviò verso la consolle, e nel camminare si tolse l'enorme accappatoio azzurro. — Basta che tu la metta verticalmente e... cos'hai da guardarmi così? Oh! — Abbassò gli occhi sui pantaloncini a mezza gamba che portava, si tirò giù l'orlo della maglietta e rise. — Be', ti ho detto che fa caldo, qui.
Roan fu costretto a notare che l'età le aveva lasciato addosso il suo marchio, ma la donna aveva ancora un corpo robusto e si portava i suoi due secoli con notevole disinvoltura. Venne a sedersi sullo sgabello del bancone e inarcò un sopracciglio.
— Una cosa devi imparare delle donne quando comincerai a conoscerle, Roan... le parti che si possono esporre fra la gente decorosa sono, ahimé, quelle che invecchiano per prime. La mia faccia era già vecchia cent'anni fa, ma il resto terrà duro per altri cento. — Cominciò a regolare l'apparecchio portatile. — Forse è meglio così, forse no... chi può dirlo? Passami quel misuratore di flusso, per favore.
Dopo un poco il lavoro di lei sulle attrezzature aveva assorbito totalmente l'attenzione di Roan. — Sono certo che non hai bisogno di questi oggetti — borbottò comunque, porgendole un utensile.
— Lo pensi davvero? — chiese lei senza interrompere quel che stava facendo.
VIII
Alle 14,51, Roan arrivò all'edificio che ospitava la J. & D. Walsh. Nella sua testa s'intrecciava un garbuglio di avvertimenti, dati tecnici e consigli strategici. Apparve sul transplat del magazzino, non negli uffici, poiché aveva con sé una lunga cassa di legno che piazzò su un carrello. Poi spinse il suo carico nel corridoio che portava all'ala dell'amministrazione.
— Oh, Celibe Walsh, posso aiutarla?
— No, Nubile Corson. Ma aspetti... sì, venga qui. — Afferrò fra le mani guantate un'estremità della cassa e fece un cenno con il capo all'emozionata segretaria. — La prenda da quel lato.
Lei esitò, poi permise che i suoi guanti fossero in vista per un momento prima di agguantare il contenitore. Lo girò fuori dal carrello e cominciò a sollevare la sua estremità.
Non da quella parte, testa di legno!
Roan cadde all'indietro per la sorpresa. La Nubile Corson, gravata da quel peso considerevole, riuscì a puntellarsi con un ginocchio sul carrello. Seduto sul pavimento lui ansimò: — Chi ha parlato?
— Ahu! — squittì la segretaria. — È pesante!
— La lasci giù. Dio mio, Nubile Corson, lei è forte come un cavallo!
— Questa è la cosa più carina che lei mi abbia mai detto — belò la donna, compiaciuta.
Una volta nel suo ufficio Roan si volse a scrutare il volto di lei, rosso ed eccitato. — Nubile Corson, cos'ha detto sul fatto che stavamo sollevando la parte sbagliata?
— Io non ho detto nulla, Celibe Wash.
L'ho detto io.
— Grazie, può andare — la congedò lui, e vedendo che continuava a ciondolargli attorno aggiunse: — Non ho bisogno di altro, mi creda. Grazie.
La donna uscì, e appena la porta fu chiusa Roan si guardò attorno. — Nonnina! Dove sei?
Giusto davanti al suo volto comparve l'estremità appuntita di un focalizzatore per raggi audio. Lui gli diede un colpettino soddisfatto e l'oggetto svanì. Era rassicurante sapere che la vecchia donna sorvegliava sullo schermo della sua grossa apparecchiatura, con un raggio audio puntato costantemente su di lui.
Alle 15,59 e qualche secondo l'intercom disse: — Roan Walsh, hai il permesso di entrare.
— Vengo subito, Privato. — L'ordine l'aveva fatto irrigidire. Com'era possibile che, pur capace di trattare disinvoltamente con chiunque, la voce di suo padre lo trasformasse ancora in una gelatina tremante?
Ma quelle riflessioni potevano aspettare. Passò nell'ufficio accanto e si fermò nella posa prescritta.
— Vieni, vieni... avvicinati. Posso fare diverse cosette con te, ma morderti non è fra quelle.
Roan restò dov'era. — Ho il permesso del Privato di portare dentro un'attrezzatura?
— Hai il mio permesso di portare qui quei documenti, revisionati o meno. Nient'altro.
— Il Privato mi costringe a fare a meno proprio della prova che lui stesso mi ha incaricato di esibire — disse lui, rigido.
— Ah, sì? — La barba, la cui parte inferiore era celata entrò il mantello dell'intimità, ebbe una contrazione pensierosa. — Molto bene. Ma devo avvertirti: a me risulta che non hai vie d'uscita, giovanotto. Neppure una!
Roan trascinò dentro l'apparecchiatura, in posizione verticale. Stava tremando per l'apprensione, ma udibile soltanto a lui la voce di Nonnina disse: Abbi fiducia in me.
Benché fosse di fronte a suo padre, riuscì quasi a sorridere. Con un ultimo sforzo girò il parallelepipedo di metallo dalla parte giusta.
La barba emise un grugnito: — Che diavolo è quello?
— La mia prova, Privato. — Calmo all'esterno, tremante all'interno, aprì la parte superiore dell'apparecchio e ne trasse fuori le due coppie di corna mobili. Ognuna di esse era vuota con una luce azzurrina che vi aleggiava dentro. Roan le girò in avanti.
— Ti ho fatto una domanda — ruggì il Privato.
— Chiedo la sua paziente comprensione — rispose lui.
Quale comprensione? La risatina femminile che gli aleggiò all'orecchio fu un balsamo per Roan.
— Sono pronto, Privato. Posso usare ora qualche piccolo oggetto... la sua penna, magari, o un libriccino?
— Mi hai rubato del denaro e stai rubando il mio tempo. Hai intenzione di rovinare anche oggetti di mia proprietà?
Che ne diresti di sputargli in un occhio?
Roan alzò gli occhi al cielo con espressione così sofferente che la voce gli concesse un sospiro: Scusami. È solo per farti sapere che sono dalla tua parte, zucchero.
Zucchero! Aveva assaggiato per la prima volta lo zucchero nel suo «sogno». Era un dolce soprannome da dare a qualcuno, e si chiese perché nessuno ci avesse mai pensato prima. Guardò negli occhi il Privato. — Se usassi un oggetto di mia proprietà si potrebbe sospettare che l'ho predisposto.
— Sospetto che tu abbia già fin troppo predisposto ciò che hai portato nel mio ufficio — grugnì il vecchio. — Qui c'è il mio vecchio fermacarte; risale al tempo in cui l'edificio aveva ancora finestre di vetro apribili all'esterno. Se gli accadesse qualcosa...
— Sì, può andare — annuì Roan, soppesando l'oggetto. Non lo ringraziò, e notò che il Privato inarcava un sopracciglio. — Vuole adesso gentilmente indicarmi un punto del pavimento?
Con un'espressione di santa pazienza il Privato gettò al suolo una delle sue penne, che rotolò fin presso una parete. Roan poggiò il fermacarte lì accanto, sulla moquette.
— Un altro favore ancora. Un punto della sua scrivania abbastanza libero da contenere quel fermacarte.
— Che stupidaggini sono queste? Vai a prendere la documentazione e stabiliremo subito l'entità del tuo crimine! Non vedo cosa c'entri...
Non lasciarlo salire in cattedra. Cerca tu il punto adatto e chiedi se gli sta bene.
Come un uomo in una tempesta di neve, Roan avanzò nell'imperversare di quei ruggiti e poggiò una mano sulla scrivania.
— Questo punto può andare? — esclamò, interrompendolo.
Il Privato tacque di colpo, stupefatto da quell'ardire, e i due uomini si fissarono entrambi senza fiato. Fu Roan a riprendersi per primo. Il vecchio era incollato allo schienale della sua poltrona, la barba scossa da un fremito. Nonnina ridacchiò divertita. Roan prese le due corna che emergevano da uno dei supporti sferici dell'apparecchio e le girò in modo che ognuna di esse puntasse sul fermacarte.
— I modelli che andranno in produzione funzioneranno su distanze molto maggiori — spiegò, mentre lavorava. — Questa è solo una dimostrazione. — Gli altri due raggi invisibili furono centrati sulla scrivania. — Sono pronto, Privato.
— Pronto per cosa? — ringhiò lui. Poi deglutì come se avesse inghiottito una pietra perché Roan aveva toccato un pulsante e nello stesso momento il fermacarte s'era materializzato sulla scrivania, giusto nel punto dove s'erano proiettati i due circoletti sovrapposti di luce azzurra. Allungò una mano incredula, esitò, poi ricadde indietro sulla poltrona. — Fallo ancora!
Roan invertì la posizione di un cursore. Il fermacarte tornò ad apparire sulla moquette. — Per anni e anni ho fatto uso di ogni minuto libero, progettando e infine costruendo quest'apparecchiatura. Se il Privato pensa che essa non sarà utile a questa ditta e all'intera industria, e che il tempo necessario a realizzarla è stato sprecato o rubato, allora sarò lieto di sottomettermi alle misure punitive che...
— Non parliamone più, figliolo — disse la barba. Il Privato si alzò e aggirò la scrivania, fissando l'apparecchiatura come affascinato. — Sai bene che questo vecchio stava solo cercando di tenerti in riga.
È tuo!
— Si possono costruire modelli più grossi?
— Più capaci delle piattaforme dei transplat — annuì Roan.
— Ne hai già costruito uno maggiore di questo?
Rispondigli di sì!
— Sì, Privato.
Lentamente gli occhi del vecchio abbandonarono l'apparecchio e si spostarono sul volto di Roan. Lui provò la tentazione di ritrarsi, ma aveva la macchina proprio dietro di sé.
Non ti distrarre!
— Pensi che questo potrà essere meglio del transplat?
Sì. Digli di sì... anche se potrà contrariarlo, diglielo!
Roan scoprì di non riuscire a parlare. Annuì appena, con un tremito.
— Mmmh! — Il Privato girò intorno all'apparecchio e lo esaminò, anche se non c'era niente da vedere se non pannelli chiusi. — Dimmi — domandò gentilmente, — questa macchina è costruita secondo lo stesso principio del transplat?
La fronte di Roan s'imperlò di sudore. Desiderò poterselo asciugare, ma esibire così una mano guantata sarebbe stato ineducato. Lasciò scendere le goccioline sulla sopracciglia.
— No — sussurrò.
— Mi stai dicendo che questo è un macchinario di nuovo tipo... migliore del transplat! — Il Privato lo scrutò, e vedendolo rigido e immobile abbaiò improvvisamente: — Bugiardo!
Pallido in faccia e con la gola secca Roan dovette fare uno sforzo enorme per sostenere gli occhi fiammeggianti del Privato. — Un transplat non può far questo — disse, accennando al fermacarte.
— Tu stai mentendo! Se ci fosse davvero una macchina come questa tu non sapresti costruirla. Non sapresti neppure progettarla! Dove l'hai avuta?
Digli che l'hai costruita tu... presto!
— L'ho costruita io — ansimò Roan.
Il Privato strinse le palpebre. — Non la capisco — borbottò infine.
Roan non aveva mai visto il vecchio così sconvolto. La sua curiosità ebbe la meglio sulla tensione. — Cos'è che non capisce, Privato?
L'uomo si volse di scatto a fronteggiarlo: — Tu mi stai nascondendo qualcosa. Che cosa?
Ecco la domanda! Avanti, zucchero, ora digli che funziona con la TC.
Roan scosse il capo e si morse le labbra. Il Privato ruggì: — Rifiuti di rispondermi?
Diglielo! Digli della TC. Dillo, maledizione!
Roan si sentiva come spaccato in due. Nella cosa doveva esserci molto più di quel che ne sapeva lui. Cos'era a trattenerlo? Cosa gli stava legando la lingua, facendogli contrarre lo stomaco e bloccandogli la voce in gola?
Fidati di me, Roan. Fidati, soprattutto in questo.
Di colpo cedette, e con voce chioccia disse: — Questo è soltanto un localizzatore. La cosa funziona con l'energia psico-cinetica.
— L'energia cosa? Cosa? — Il Privato si rilassò così all'improvviso che parve boccheggiare.
— Si chiama TC. Telecinesi, un potere della mente.
— Dunque, in realtà non è affatto una macchina.
— Be'... sì, potremmo dire di sì. O almeno, questa è la mia teoria. — E d'un tratto dov'erano la lingua legata, lo stomaco contratto e la gola chiusa? Non c'erano più!
— Tu credi davvero in questa roba psichica?
Roan s'accorse di sorridere. — Funziona.
— Perché la tenevi nascosta?
— Lei avrebbe mai creduto in una cosa simile, Privato?
— Confesso di no.
— Be', allora... vorrei finirla e collaudarla. Nient'altro.
— E poi che intendi farne?
Dagliela pure. La macchina, Roan... dagliela!
— Ecco, è vostra. Voglio dire, nostra. Della ditta. Che altro?
Dei due rumori che Roan udì, uno era quello di due mani guantate che si sfregavano insieme; l'altro era la risata acida di Nonnina. E non ti domanda neanche dov'era il tuo operatore psichico. Lo hai notato? Non gli passa neppure per la mente.
— Che ne pensi di lavorare con il Reparto Progetti per lo sviluppo della cosa? — domandò il Privato.
Accetta, zucchero, Io non ti lascerò nei pasticci.
— Benissimo — disse Roan.
— Non saprai mai... non puoi sapere cosa significa questo per me — disse il Privato. Per un attimo Roan temette che il vecchio gli desse una pacca su una spalla o facesse un altro gesto impensabile. — Io so riconoscere i miei errori. E pensare che avresti potuto trovarti a fare una brutta fine! Invece eccoti qua, a incrementare gli affari della ditta. Be', hai dato una meritata lezione al tuo vecchio. Da ora in poi il tuo tempo sarà soltanto tuo. Lavora pure a tutto ciò che ti piace, ragazzo.
— Oh, questo non posso farlo, Privato.
Sì, per Dio! Sì che puoi! Sbottò la voce nel suo orecchio. E già che l'hai messo al tappeto, saltagli addosso: prenditi una casa per te.
Una casa tutta sua! Con una di quelle macchine TC sarebbe potuto andare dappertutto, ogni volta che avesse voluto. Poteva prendere con sé Val... e ritrovare Fiore!
IX
Nonostante la brezzolina notturna faceva caldo. Il villaggio dormiva, e soltanto poche persone sedevano intorno alla grande tavola nella radura. Nel firmamento palpitavano le stelle, e dalla boscaglia provenivano i richiami dei gufi e delle civette.
— Per dirla in parole dure — stava spiegando la vecchia signora con voce tutt'altro che dura, — rovesciare un sistema culturale non è una cosa che tu possa fare in un pomeriggio. Devi prima sapere da dove viene e dove si trova adesso, prima di stabilire dove deve andare. Questo costa un bel po' di tempo. Poi devi chiarire fino a che punto ha bisogno di cambiare, e se il cambiamento studiato da te è quello giusto. E infine è necessario che tu sia sicuro, e dico sicuro, di non spingerla oltre certi limiti, passati i quali potrebbe cadere in qualcosa di peggiore.
— Ma non per questo avrei torto a darle quella spinta — insistette Roan.
— Benedetto te, no. Non avresti affatto torto.
— Allora dimmi tutto.
— Parte di questo potrebbe ferirti.
— Oh, non ferirlo! — esclamò Fiore, scherzando solo per metà. Nel buio Roan le strinse una mano e sentì, come sempre, l'indescrivibile piacere che gli dava toccare la pelle di lei.
— Dovrò farlo, dolcezza — disse Nonnina. — Anche le vesciche e le ginocchia fanno male quando si comincia ad arare un campo, ma non c'è modo di evitarlo se si vuol vedere il grano crescere. Chi è là? — chiamò.
Dall'oscurità rispose una voce allegra: — Io, Nonnina. Prester.
— Buonasera a tutti — disse Val. I due giovani comparvero nel debole alone della lampada a vento poggiata sul tavolo. La ragazza indossava una tunichetta alla schiava in cui erano impigliati alcuni fili d'erba, e sottobraccio a Prester si muoveva come se i loro corpi fossero una cosa sola. Guardando il suo volto Roan si sentì mozzare il fiato, ma Fiore gli strinse la mano con un sorriso malizioso.
— Sedete, ragazzi, voglio che ascoltiate anche voi. Roan, la faresti una cosa per me? Una cosa difficile.
— Che cosa?
— Prometti di tener chiusa la bocca finché non avrò finito, non importa quel che dico?
— Non mi sembra difficile.
— No, eh? Bene. Fiore, rivelaci con precisione quali sono i tuoi poteri Psi.
Roan chiuse gli occhi e gli parve di rivedere la comparsa di Fiore nel suo cubicolo, i suoi gesti deliziosi quando gli aveva parlato nel cortile, la sua mano che faceva apparire un calice di liquore per lui estraendolo dall'aria. La ragazza disse: — Nessuno che io sappia, Nonnina.
— Cosa? — esplose lui.
Nonnina schioccò le dita. — Hai promesso di tapparti la bocca! — Si volse a Fiore: — E chi ha i maggiori poteri Psi, fra quanti conosci?
— Annie — rispose lei.
— La ragazzina quindicenne di cui ti ho parlato — spiegò Nonnina a Roan. — Quella che fa oscillare un bilanciere a meno di cinque metri. Taci! Lasciami finire!
Con sforzo Roan evitò di parlare, e annuì.
— In un certo modo ti abbiamo mentito — disse Nonnina, — e in un altro no. Un giorno ti ho parlato delle cose a cui stavo pensando (della nuova razza che potrà emergere in futuro; il prossimo passo in avanti), e io credo in questa cosa, Roan. Chiamalo sogno, se vuoi. E quando tu hai avuto il tuo sogno di due giorni, nello stesso breve periodo noi abbiamo visto avverarsi il nostro. Lo abbiamo messo in atto come uno spettacolo teatrale: io ti ho avuto sullo schermo della mia macchina per tutto il tempo.
«È una nuova macchina, Roan, costruita secondo una teoria nuova di cui i tecnici del transplat non immaginano neppure l'esistenza. È proprio quel che ti ho detto che era: una trasmittente di materia senza la centrale d'energia. Niente stazioni, niente macchinari, niente piattaforme. Io l'ho usata in ciascuno degli episodi Psi che tu hai creduto tali, in quei due giorni. Mi credi?
— No!
— Valerie?
— Mi piacerebbe crederti — disse lei, diffidente. — Ma ho sempre pensato che...
— È inutile che io ve ne parli con delicatezza — disse Nonnina. — Questo ti potrà tormentare per il resto della tua vita, Roan, e lo stesso per te, Valerie, e per tutti quelli che porteremo qui in futuro. Potrete razionalizzare dentro di voi questo fatto, però non vorrete mai credere che io ho davvero una nuova apparecchiatura. Taci, Roan!
«Voi due e gli altri della vostra generazione siete il primo gruppo ad aver avuto un efficace processo di condizionamento mentale nel brefotrofio. Non potete ricordarlo, e tuttavia fin dalla nascita siete stati artificialmente condizionati su due convinzioni basilari. Forse troveremo il modo di scalzarvele dalla mente. Una di queste è che il transplat rappresenta il vertice della tecnologia umana... e che ci sono solo certe cose che esso può fare, e solo un modo di farle.
«Tu sei stato condizionato più a fondo di Val, Roan, perché i maschi delle famiglie che governano i transplat hanno più probabilità degli altri di sviluppare un nuovo e indesiderato tipo di tecnologia. Ed è per questo motivo che quando ce n'è stato il mezzo a svilupparla sono state le donne. Non contorcerti così, ragazzo! L'abbiamo, che tu lo creda o no, e da ora in poi l'avremo sempre. Mi spiace... ti urta perfino sentirne parlare, e so cos'hai passato quando cercavi di venderla a tuo padre. Tremavi tanto che mi aspettavo di vederti svenire!
Roan trasse alcuni profondi respiri per calmarsi, ma non disse una parola. Fiore gli passò un braccio intorno alle spalle.
— Dovevamo farti questo, ragazzo. Dovevamo. Il perché lo capirai — disse Nonnina. Sul suo volto rugoso c'erano preoccupazione e tenerezza. — Ma lasciami riprendere dall'inizio. Come dicevo, non puoi ribaltare una cultura in un pomeriggio. Io volevo cambiarla, non farla a pezzi. La Stasi è il prodotto finale di millenni di storia. Gli esseri umani hanno lottato contro le avversità tanto a lungo da sviluppare quella che potremmo chiamare una fobia razziale per l'insicurezza. Quando infine ebbero uno strumento decisivo per il benessere, il transplat, vi si aggrapparono come alla prima vera ancora di salvezza. Non era per questo che il transplat doveva servire, in origine. Il progetto era di far spargere nuovamente l'umanità per il pianeta, dopo secoli d'isolamento in Africa. Ah!
«Subito dopo cominciarono i tentativi per condizionare i bambini nei brefotrofi, con lo scopo di schermare le nuove generazioni contro nuovi pensieri, nuove ambizioni, nuovi modi di vita. E alcuni di noi cominciarono ad aver paura per l'umanità. La Stasi divenne la prima forma di società capace di rendere impossibili le nuove idee. Penso che riuscirebbe a far sopravvivere in eterno l'umanità con una cultura eterna e immutabile. Lo penso davvero. Ma credo anche che per l'umanità questa sarebbe la peggior cosa possibile.
«E così eccoci a Roan: il primo dei futuri dirigenti del transplat fornito di un condizionamento profondo, incapace di credere che il servizio possa essere migliorato. Con te c'erano, e ci sono, molti altri sparsi in varie industrie, e li stiamo tenendo d'occhio. Ma l'industria del transplat è la chiave di volta. Roan, credilo o no, tu eri una minaccia: dovevi essere fermato. Con te a capo della tua ditta non avremmo mai potuto introdurre la nuova tecnologia; e tuttavia, se non fossimo riusciti a farcela durante la tua generazione, in seguito sarebbe stato impossibile.
«Tuo padre era l'anello più debole della catena, l'ultimo di una generazione ancora non perfettamente condizionata, l'ultimo che avrebbe potuto vedere senza inorridire un'innovazione qualsiasi... Ricordi quando gli hai suggerito di eliminare gli inservienti del transplat? Soltanto lui era abbastanza mal condizionato da poter mandare al Reparto Progetti una nuova macchina prima di capire che, una volta in uso, ogni cubicolo di ogni edificio umano si spalancherebbe di colpo al cielo. E anche in futuro, il suo innato senso della decenza gli impedirà di pensare che qualcuno metterebbe in pericolo l'intimità altrui. Questo è un aspetto della faccenda di cui ci occuperemo.
— Vorrei che tu non avessi parlato di lui in questo modo — mormorò Roan, a disagio.
— Mi spiace, ragazzo. Ti sarebbe d'aiuto sapere che sei stato condizionato anche a provare sottomissione e cieco rispetto verso tuo padre? Vorrei poterti aiutare... sarai legato a questa particolare catena per tutta la vita. Comunque, tempo fa abbiamo terminato di mettere a punto questa nuova apparecchiatura. Non ci sarebbero stati problemi se avessimo saputo come de-condizionarti verso il suo uso, invece potevamo ipotizzare solo due possibilità nel caso che tu avessi visto la macchina in funzione: o avresti perso la salute mentale, o avresti usato la tua posizione nella ditta per eliminarla per sempre.
— Ma sbagliavate in entrambe le ipotesi — obiettò lui.
— Questo perché, come poi scoprimmo, il condizionamento veniva impartito contro ogni nuova macchina, ogni strumento — rispose Nonnina. — Non avevano pensato che poteva esserci un metodo per la trasmissione di materia senza bisogno di alcuna apparecchiatura.
«Capisci ora perché tuo padre era sconvolto quando si è trovato di fronte al modello pilota? Una delle basi del suo piccolo decoroso universo stava nel fatto che il condizionamento funzionava, e che di tutti gli esseri umani della Terra tu avresti dovuto essere l'ultimo a pensare ad una nuova macchina, figuriamoci poi a costruirla! E quando tu sei venuto fuori con la storiella dei poteri psicocinetici, lui ha riconosciuto la tua razionalizzazione per quel che era, e si è sentito di nuovo sicuro. La Stasi continuava a funzionare più solida che mai.
«E tuttavia, non esito a dirtelo, tu ci hai costretti ad accellerare i tempi bruscamente. Il nostro progetto iniziale era di reclutare con calma, e con il metodo usato su di te: sogni, inattesi ma potenti appelli a tutti gli istinti umani che la Stasi ha schiacciato. E poi, quando saremmo stati abbastanza numerosi, forse saremmo venuti allo scoperto, e in un modo o nell'altro avremmo finito col vincere... avevamo la Natura e forse anche Dio stesso al nostro fianco.
«Ma poi tu, invece di fare un passettino avanti, sei schizzato in volo. Che candidato! Hai risposto all'appello così intensamente che se te ne avessimo dato il modo avresti fatto saltare per aria la Stasi, e probabilmente anche te stesso, e noi con te! E ti sei nutrito di questa idea dello Psi come facesti con la bistecca che quel giorno ti piazzammo nel distributore. Era un nostro test per saggiare le tue preferenze in fatto di cibo, in vista di un sogno che progettavamo di farti fare. Tutto d'un colpo tu avresti voluto trapiantare la nostra macchina nel mezzo della Stasi. Era una possibilità, ma... be', hai visto cos'è successo.
— Posso parlare, adesso? — chiese Roan, accigliato.
— Certo, ragazzo mio.
— Non voglio parlare con te di quest'apparecchiatura... di come funzioni in realtà, intendo. Però non hai fatto altro che dare alla Stasi una macchina ancora più efficiente. Potrai interferire con il nuovo sistema di trasporti, certo, ma è pur sempre un sistema come quello del transplat. Perciò dove sta questo grande vantaggio?
Nonnina ridacchiò. Da una tasca tolse un oggetto che fece rotolare sul tavolo verso di lui. Aveva l'apparenza di un comune sasso. — Sai cos'è questo? — domandò.
— Gesso? — ipotizzò Valerie.
— No — disse Roan. — È pomice. Ne ho vista molta in magazzino.
— Be', dovete fidarvi della mia parola — disse Nonnina, — anche se posso dimostrarvelo quando volete: ho prelevato questo pezzo di pomice alle 14,30 di questo pomeriggio... dalla superficie della Luna, usando la macchina che tu hai visto nel mio laboratorio.
— Dalla Luna!
— Già. Questo è il vantaggio della nuova macchina. Il transplat opera solo in un intenso campo di gravità planetario, trasmettendo la materia in forma d'energia da un punto all'altro. La nuova teoria sfrutta invece la presenza di campi para-gravitazionali, legati alla struttura intima dello stesso spazio e che collegano ogni massa presente nell'universo. La materia cancellata in un punto viene ricreata in un altro. Come il transplat, il passaggio è istantaneo, perché con questo sistema la distanza viene in effetti annullata.
«Il raggio d'azione sembra essere infinito... almeno, va oltre i limiti imposti dallo schermo-esploratore. Questi però dipendono dalla distanza fra le due parti della macchina. Io ho raggiunto la Luna facilmente con la mia linea-base di quaranta miglia. Piazzando un servo-robot sulla Luna si può arrivare su Marte. Stendiamo una linea-base fra qui e Marte e potremo sputare su Alfa Centauri. In altre parole: è un sistema che si può estendere. Tutti tacquero mentre Roan, alzando gli occhi al firmamento, immaginò l'inquietante e meraviglioso disegno di una rete distesa fra le stelle, fra i pianeti, che li collegava e si estendeva sempre più... una rete che pulsava della presenza umana all'opera su distanze impensabili.
Prester mormorò: — Qualcuno vuol comprare un'astronave ancora in buono stato?
— Perché hai fatto questo? — chiese Valerie, sottovoce come se stesse parlando in una cattedrale.
— Vuoi dire perché non mi limito a pensare agli affari miei, lasciando che il mondo viva felicemente ubriaco della propria tranquilla meschinità? — Nonnina sorrise. — Suppongo sia perché ho sempre avuto troppo da fare per rassegnarmi a stare seduta a guardare. No, questo non è vero. Diciamo che l'ho fatto perché me lo imponeva la coscienza.
— La coscienza?
— È stata Nonnina a costruire il primo transplat — spiegò Fiore.
— E tu dicevi a lei quello che si può e non si può fare, Roan! — ansimò Valerie.
— Io le ho detto soltanto... — cominciò lui, seccato. Ma d'un tratto scoppiò a ridere. — Qualche giorno fa ho pensato di fare a Nonnina un piccolo regalo: ferri da calza. Un passatempo che usavano i vecchi per distrarsi mentre guardavano tramontare il sole.
Tutti quanti risero, e Fiore disse: — Nonnina non fa la calza.
— Non per un bel po' di tempo ancora — disse la vecchia signora, e sorrise al cielo pieno di stelle.
IL VENTO E LA PIOGGIA
The Wind and the Rain
di Robert Silverberg
Saving Worlds, 1973
Ancora Robert Silverberg e ancora due storie completamente diverse tra loro ma che hanno in comune (oltre all'ottima fattura) il tema: il lontanissimo futuro della Terra. «Il vento e la pioggia» è una fredda e oculata disamina del nostro incosciente tentativo di distruggere il nostro ambiente ecologico e dei grossi problemi che ne ricaveremo. «Questa è la strada» invece è un romanzo breve vagamente reminiscente del Vance del ciclo della Terra Morente. Colorito, fantastico e affascinante ci mostra l'altra faccia della medaglia: un futuro molto lontano da noi e dai nostri problemi. Ed è giusto che sia così, perché la sf è letteratura e quindi il suo scopo è, oltre a una opportuna «messa in guardia» dai pericoli, anche e soprattutto quello di divertire con una sana lettura.
Il pianeta si pulisce da solo. È importante non dimenticarlo, soprattutto quando cominciamo ad essere un po' troppo orgogliosi di noi stessi. Il processo di risanamento è naturale ed inevitabile. L'azione del vento e della pioggia, le maree che si alzano e si abbassano, l'afflusso di fiumi vigorosi che ripuliscono i laghi intasati e maleodoranti, tutti questi sono ritmi naturali, salutari manifestazioni di un'armonia universale. Naturalmente, ci siamo anche noi. Noi facciamo del nostro meglio per accelerare il processo. Ma siamo solo degli ausiliari, e lo sappiamo. Non dobbiamo sopravvalutare l'importanza del nostro lavoro. Il falso orgoglio è peggio di un peccato: è stupidità. Non dobbiamo ingannare noi stessi credendoci importanti. Senza di noi il pianeta si ristabilirebbe da solo in un arco di tempo che va dai venti ai cinquanta milioni di anni. È stato calcolato che la nostra presenza riduce questo tempo di più della metà.
Lo scarico incontrollato di metano nell'atmosfera fu uno dei problemi più seri. Il metano è un gas incolore, inodore, conosciuto anche con il nome di gas di palude. È composto da idrogeno e carbonio. Gran parte dell'atmosfera di Giove e Saturno è costituita di metano. (Giove e Saturno non sono mai stati abitabili per gli esseri umani.) Una piccola quantità di metano è sempre stata presente nell'atmosfera della Terra. Ma l'aumento della popolazione umana produsse un conseguente aumento di metano. La gran parte del metano liberato nell'atmosfera proveniva dalle paludi e dalle miniere di carbone. Una grande quantità era prodotta dai ricchi campi dell'Asia, fertilizzati con rifiuti umani ed animali; il metano è un sottoprodotto del processo di digestione.
Il metano in eccesso fluiva nella bassa stratosfera, da venti a cinquanta chilometri sopra la superficie terrestre, dove un tempo esisteva uno strato di ozono. L'ozono, formato da tre atomi di ossigeno, assorbe le dannose radiazioni ultraviolette emesse dal sole. Reagendo con gli atomi di ossigeno liberi nella stratosfera, il metano riduceva la quantità di atomi a disposizione per formare l'ozono. In più, le reazioni del metano nella stratosfera producevano vapore acqueo che indeboliva ulteriormente l'ozono. Il progressivo esaurimento del contenuto di ozono nella stratosfera, causato dal metano, lasciò la Terra sotto l'effetto di un bombardamento incontrollato di raggi ultravioletti, con un conseguente aumento dei tumori della pelle.
Un grosso contributo all'aumento di metano venne dato dalla flatulenza del bestiame domestico. Secondo il Ministero dell'Agricoltura degli Stati Uniti, alla fine del ventesimo secolo i ruminanti producevano più di ottantacinque milioni di tonnellate di metano all'anno. Eppure non venne fatto nulla per tenere sotto controllo l'attività di queste pericolose creature. Vi diverte l'idea di un mondo distrutto da mandrie di mucche scorreggianti? Per la gente del ventesimo secolo non deve essere stato divertente. Ma l'estinzione dei ruminanti domestici contribuì a ridurre l'impatto di quel processo.
Oggi dobbiamo iniettare fluidi colorati in un grande fiume. Edith, Bruce, Paul, Elaine, Oliver, Ronald ed io siamo stati assegnati a questo compito. Molti di noi pensano che il fiume sia il Mississipi, per quanto alcuni elementi facciano piuttosto pensare al Nilo. Oliver, Bruce ed Edith ritengono più probabile che si tratti del Nilo, e non del Mississipi, ma comunque si adeguano all'opinione prevalente. Il fiume è largo e profondo; il suo colore in alcuni punti è nero e in altri verde scuro. I fluidi vengono mescolati dal computer sulla sponda orientale del fiume in un grosso impianto eretto da un'altra squadra di bonifica. Noi sorvegliamo il loro passaggio nel fiume. Prima iniettiamo il fluido rosso, poi quello blu e infine quello giallo; questi hanno una densità diversa e formano strisce parallele che scorrono per molte centinaia di chilometri nell'acqua. Non sappiamo con certezza se questi fluidi siano degli agenti attivi di risanamento, cioè sostanze in grado di dissolvere i rifiuti solidi inquinanti che ingombrano il letto del fiume, o semplici rivelatori per consentire ulteriori analisi chimiche del fiume da parte del sistema di satelliti orbitanti. Non è importante capire ciò che stiamo facendo, quello che conta è seguire correttamente le istruzioni. Elaine scherza a proposito di una bella nuotata. Bruce dice: — È assurdo. Il fiume è noto per una micidiale varietà di pesci in grado di strappare la carne dalle ossa. — A questo punto tutti scoppiamo a ridere. Pesci? Qui? Quale pesce potrebbe essere più micidiale del fiume stesso? Queste acque sono in grado di corrodere la nostra carne, e probabilmente anche le nostre ossa. Ieri ho scritto una poesia e l'ho fatta cadere nel fiume: la carta è scomparsa all'istante.
Alla sera camminiamo lungo la spiaggia e ci lanciamo in lunghe discussioni filosofiche. I tramonti sulla costa sono impreziositi da sfumature di color porpora, verde, rosso e giallo. Qualche volta ci rallegriamo nel vedere come una combinazione particolarmente riuscita di gas atmosferici crei nuovi effetti di luce. Siamo sempre allegri e pieni di ottimismo. Le rivelazioni di questo pianeta non ci deprimono mai. Anche la devastazione può essere una forma d'arte, no? Forse è una delle forme d'arte più grandi, poiché un'arte di distruzione consuma il proprio mezzo, divora i propri fondamenti epistemologici e, in questo sublime e nullificante ritorno alle origini, supera di molto per complessità morale le forme d'arte meramente costruttive. Intendo dire che attribuisco molto più valore ad un'arte trasformativa che ad una generativa. Sono stato chiaro? In ogni caso, dal momento che l'arte nobilita ed esalta lo spirito di coloro che la percepiscono, noi siamo nobilitati ed esaltati dalle condizioni della Terra. Invidiamo coloro che hanno contribuito a creare quelle straordinarie condizioni. Sappiamo di essere umili rappresentanti di un'epoca recente e di scarsa importanza; siamo privi della grandiosità dinamica e dell'energia che hanno permesso ai nostri antenati di commettere un tale saccheggio. Questo mondo è una sinfonia. Naturalmente si potrebbe osservare che restaurare un pianeta richiede più energia che distruggerlo, ma non è così. Nonostante il nostro lavoro quotidiano ci lasci stanchi e svuotati, riusciamo sempre a trovare nuovi stimoli emotivi d'interesse, perché rigenerare questo mondo, il mondo di origine del genere umano, in un certo senso è come partecipare allo splendido processo originale della sua distruzione. Esattamente come la risoluzione di un accordo dissonante partecipa alla dissonanza di quell'accordo.
Adesso siamo venuti a Tokio, la capitale dell'isola imperiale del Giappone. Vedete come sono esili gli scheletri dei cittadini? Questo è uno degli elementi che ci permette di identificare questo luogo come il Giappone. Si sa che i Giapponesi erano gente di bassa statura. Gli antenati di Edward erano Giapponesi. Lui è piccolo. (Edith dice che dovrebbe anche avere la pelle gialla. La sua pelle è come la nostra. Perché la sua pelle non è gialla?) — Vedete? — gridò Edward. — Ecco il monte Fuji! — È una montagna bellissima, ammantata di neve. Sulle sue pendici è al lavoro una delle nostre squadre archeologiche, sta scavando gallerie sotto la neve per raccogliere campioni dagli strati di residui chimici, polvere e ceneri del ventesimo secolo. — Una volta c'erano più di settantacinquemila ciminiere industriali intorno a Tokio — afferma con orgoglio Edward, — da cui venivano emesse ogni giorno centinaia di tonnellate di zolfo, protossido d'azoto, ammoniaca e gas di carbonio. Non dobbiamo dimenticare che in questa città circolavano più di un milione e mezzo di automobili. — Molte delle auto sono ancora visibili, ma sono molto fragili, ridotte a lamiere sottili a causa dell'azione dell'atmosfera. Quando le tocchiamo si dissolvono in nuvole di fumo grigio. Edward, che ha studiato attentamente la sua ascendenza, ci dice: — Non era insolito che qui, nei giorni d'estate, il livello di anidride carbonica nell'aria superasse di oltre il duecentocinquanta per cento il limite di tollerabilità. A causa delle condizioni atmosferiche, il monte Fuji era visibile solo un giorno su nove. Eppure nessuno sembrava esserne turbato. — Rievoca per noi il quadro dei suoi piccoli, gialli ed industriosi antenati che si affannano allegri e senza sosta nell'ambiente velenoso. I Giapponesi, insiste, furono in grado di mantenere e persino di aumentare il loro prodotto nazionale lordo in un momento in cui le altre nazioni avevano già cominciato a perdere terreno nella competizione economica mondiale, a causa del calo della popolazione dovuta a fattori ecologici sfavorevoli. Eccetera, eccetera. Dopo un po' ci stufiamo delle continue vanterie di Edward. — Basta con queste esibizioni — gli dice Oliver, — o ti esponiamo all'atmosfera. — Il lavoro che dobbiamo svolgere qui è piuttosto monotono. Io e Paul guidiamo le enormi aratrici; Oliver e Ronald ci seguono piantando semi. Quasi immediatamente, fioriscono strani cespugli angolosi. Hanno foglie azzurrine e luccicanti e lunghi rami ricurvi. Ieri, uno di essi ha preso Elaine per la gola e avrebbe potuto ferirla seriamente se Bruce non l'avesse sradicato. Non ne fummo turbati. Questa è solo una fase nel lungo e lento processo di risanamento. Ci saranno altri incidenti simili. Un giorno, in questo luogo fioriranno i ciliegi.
Ecco la poesia che il fiume si è mangiato:
DISTRUZIONE. I. Sostantivi. Distruzione, desolazione, relitto, rottame, rovina, rudere, rovina e distruzione, disastro, crollo, demolizione, saccheggio, strage, devastazione, dilapidazione, sfacelo, disgregazione, consumo, dissoluzione, annullamento, disfatta, spoliazione; mutilazione, disgregazione, polverizzazione; sabotaggio, vandalismo; annullamento, dannazione, estinzione, sfruttamento, invalidazione, abrogazione, frantumazione, naufragio; annientamento, annichilimento, sterminio, estirpazione, oblio, perdizione, sovversione.
II. Verbi. Distruggere, rovinare, mandare in rovina, frantumare, demolire, radere al suolo, devastare, sventrare, dilapidare, decimare, danneggiare, crollare, consumare, dissolvere, disgregare, mutilare, disintegrare, sovvertire, polverizzare; sabotare, brutalizzare; annullare, danneggiare, piagare, maledire, infrangere, estinguere, annullare, cancellare, soffocare, smorzare, affondare, infrangere, naufragare, silurare, demolire, sfruttare, disfare, svuotare; annichilire, divorare, annullare, sterminare, obliterare, estirpare, sovvertire; corrodere, erodere, indebolire, minare, sprecare, sciupare; ridurre; finire, infettare, corrodere; logorare, scorticare, escoriare, arrugginire.
III. Aggettivi. Distruttivo, rovinoso, vandalico, pernicioso, spietato, mortifero, malefico, distruttivo, predatorio, sinistro, nichilistico; corrosivo, erosivo, cancrenoso, caustico, abrasivo.
— Io ratifico — dice Edith.
— Io rimedio alla distruzione — dice Oliver.
— Io integro — dice Paul.
— Io svandalizzo — dice Elaine.
— Io ricompongo — dice Bruce.
— Io recupero — dice Edward.
— Io rigenero — dice Ronald.
— Io elimino la desolazione — dice Ethel.
— Io creo — dico io.
Noi ricostituiamo. Noi rinnoviamo. Noi ripariamo. Noi bonifichiamo. Noi ripristiniamo. Noi ricostruiamo. Noi riproduciamo. Noi redimiamo. Noi reintegriamo. Noi rimpiazziamo. Noi riedifichiamo. Noi ridiamo nuova vita. Noi facciamo risorgere. Noi ripariamo, medichiamo, correggiamo, poniamo rimedio, ritocchiamo, aggiustiamo, ricuciamo, rappezziamo, rabberciamo, rammendiamo, turiamo, uniamo. Noi celebriamo il nostro successo con un canto gagliardo ed energico. Alcuni di noi si accoppiano.
Ecco un incredibile esempio dell'umorismo nero degli antichi. In un luogo chiamato Richland, Washington, c'era un impianto adibito alla produzione di plutonio per armi nucleari. Tutto questo in nome della sicurezza nazionale, cioè per mantenere ed aumentare la sicurezza degli Stati Uniti e rendere gli abitanti fiduciosi e liberi da ogni preoccupazione. In un tempo relativamente breve, queste attività produssero circa cinquantacinque milioni di litri di scorie radioattive concentrate. Questo materiale era tanto caldo che avrebbe continuato a bollire spontaneamente per alcuni decenni, conservando le sue proprietà violentemente tossiche per varie migliaia di anni. La presenza di scorie così pericolose costituiva una severa minaccia ambientale per una vasta area degli Stati Uniti. Cosa fare, allora, di queste scorie? Venne trovata una soluzione davvero comica. L'impianto per il plutonio era situato in una regione altamente instabile dal punto di vista sismico, lungo la cintura a rischio che attraversa l'oceano Pacifico. Venne scelto un luogo di immagazzinamento proprio sopra quella faglia che aveva provocato un violento terremoto mezzo secolo prima. Qui, a poca profondità vennero interrati cento e quaranta serbatoi di cemento e acciaio, a circa cento metri di distanza dal bacino del fiume Columbia, che forniva acqua ad una regione densamente popolata. In questi serbatoi vennero immesse le scorie radioattive bollenti; un magnifico dono per le generazioni future. La raffinatezza dello scherzo divenne palese dopo pochi anni, quando cominciarono a notarsi le prime crepe nei serbatoi. Secondo alcuni osservatori sarebbero passati da dieci a venti anni prima che l'enorme calore potesse provocare la rottura delle giunture dei serbatoi, permettendo così alla radioattività di espandersi nell'atmosfera e ai fluidi radioattivi di riversarsi nel fiume. I progettisti dei serbatoi, però, continuarono a sostenere che questi erano sufficientemente resistenti da durare almeno cento anni. Si tenga presente che questo periodo era inferiore all'uno per cento al tempo di dimezzamento previsto dei materiali contenuti nei serbatoi. A causa della frammentarietà delle documentazioni, non siamo in grado di stabilire quale delle due stime fosse corretta. Alle nostre squadre di decontaminazione sarà possibile entrare nella regione inquinata non prima di un periodo che va da ottocento a milletrecento anni. Questo episodio suscita la mia incondizionata ammirazione! Quanto spirito, quanto entusiasmo dovevano avere gli antichi!
Ci viene concessa una vacanza per permetterci di raggiungere le montagne dell'Uruguay e visitare uno degli ultimi insediamenti umani, forse proprio l'ultimo. Venne scoperto parecchie centinaia di anni fa da una squadra di bonifica ed è stato conservato allo stato originario come museo per i turisti che un giorno vorranno visitare il loro pianeta natale. Si entra attraverso una lunga galleria di lucidi mattoni rosa. Una serie di portelli impedisce all'aria di penetrare all'interno. Il villaggio, adagiato tra due speroni rocciosi, è schermato da una cupola luccicante. Controlli automatici mantengono la temperatura ad un livello moderato. C'erano migliaia di abitanti. Li vediamo ancora nelle immense piazze, nelle taverne, e nei luoghi di svago. I gruppi familiari rimangono uniti, spesso in compagnia di qualche animale domestico. Alcuni hanno un ombrello. Tutti sono in buono stato di conservazione. Molti sorridono. Non si sa ancora perché questa gente sia morta. Alcuni sono deceduti nell'atto di parlare e gli studiosi hanno concentrato i loro sforzi, finora senza successo, nel tentativo di capire e tradurre l'ultima parola congelata sulle loro labbra. Non possiamo toccare nulla, ma possiamo entrare nelle case per ammirare i loro mobili e le loro proprietà. Sono commosso fino alle lacrime, e così anche gli altri. — Forse questi sono proprio i nostri antenati — esclama Ronald. Ma Bruce dichiara con disprezzo: — Sono cose ridicole. I nostri antenati devono essersene andati da qui molto tempo prima del periodo in cui visse questa gente. — Proprio fuori dall'insediamento trovo un piccolo osso luccicante, forse la tibia di un bambino o l'osso della coda di un cane. — Posso tenerlo? — chiedo al nostro capo. Ma lui mi obbliga a donarlo al museo.
Gli archivi rivelano molte cose affascinanti. Per esempio quel tocco ironico nel modo di gestire l'ecologia. Nell'oceano al largo di un luogo chiamato California vi erano enormi foreste di alghe giganti chiamate fuchi, che accoglievano una vasta ed intricata comunità di creature marine. I ricci di mare vivevano sul fondo dell'oceano, a trenta metri di profondità, tra le radici che ancoravano i fuchi. Mammiferi acquatici ricoperti di pelo, conosciuti come lontre marine, si cibavano dei ricci. Gli abitanti della Terra cacciarono le lontre per la loro pelliccia. Più tardi, i fuchi cominciarono a morire. Chilometri quadrati di foreste svanirono. Questo causò una serie di gravi conseguenze economiche, perché i fuchi erano preziosi, come pure molte delle specie animali di quel medesimo habitat. Un'indagine del fondo dell'oceano rivelò un enorme aumento dei ricci di mare. Non solo i loro nemici naturali, le lontre, erano scomparsi, ma in più i ricci si cibavano delle immense quantità di residui organici riversati dagli abitanti della Terra nell'oceano attraverso il sistema fognario. Milioni di ricci rosicchiavano le radici dei fuchi, sradicandole e uccidendole. Quando accidentalmente una petroliera riversò il suo carico nell'oceano, molti ricci vennero uccisi e i fuchi ricominciarono a prosperare. Ma questo si rivelò un metodo poco pratico per controllare i ricci di mare. Si pensò di incoraggiare il ritorno delle lontre marine, ma il numero di esemplari viventi non era sufficiente. Gli operatori ecologici della California risolsero il problema imbarcando calce viva su grosse chiatte e scaricandola in mare. Questo si rivelò fatale per i ricci di mare; una volta sterminati, vennero trasportate da varie zone della Terra piante sane di fuchi per formare il nucleo di una nuova foresta. Dopo un po' i ricci ritornarono e ricominciarono a mangiare le alghe. Venne versata altra calce. I ricci morirono e vennero piantate altre alghe. Più tardi si scoprì che la calce viva produceva effetti dannosi al fondo dell'oceano e vennero impiegati altri composti chimici per controbilanciare questi effetti. Tutto questo richiese una grande ingegnosità ed un considerevole dispendio di energie e di risorse. Edward pensa che ci fosse qualcosa di molto giapponese in questo atteggiamento. Ethel fa notare che il problema delle alghe non sarebbe sorto se gli abitanti della Terra non avessero eliminato le lontre. Quant'è ingenua Ethel. Non capisce i principi dell'ironia. Anche la poesia la sconcerta. Edward non vuole più dormire con Ethel, ora.
Nell'ultimo secolo della loro era, gli abitanti della Terra riuscirono a ricoprire quasi completamente di cemento e metallo la superficie del loro pianeta. Dobbiamo levarne la maggior parte in modo che il suolo possa ricominciare a respirare. Sarebbe più facile ed efficiente usare acidi o esplosivi, ma a noi non interessa la facilità e l'efficienza; in più vi è la preoccupazione che gli acidi e gli esplosivi possano produrre un ulteriore danno ecologico. Quindi usiamo delle macchine che inseriscono dei grossi rebbi nelle spaccature che si sono prodotte nel cemento. Una volta sollevate, le lastre si disgregano rapidamente. Nuvole di polvere di cemento fluttuano libere per le strade di queste città, ricoprendo gli edifici diroccati con una sottile patina di cipria grigiastra. L'effetto è delicato e riposante. Ieri Paul ha suggerito che, sollevando quella polvere, forse si causava un danno ecologico. La cosa mi ha turbato e ho deciso di fare rapporto al capo del nostro gruppo. Paul sarà trasferito ad un'altra squadra.
Quando ormai la fine era prossima, qui tutti portavano delle tute e dei respiratori, simili alle nostre ma più complete. Troviamo queste tute abbandonate dappertutto come gusci di giganteschi insetti. I modelli più sofisticati erano unità abitative individuali e complete. Sembra che non fosse necessario togliersi la tuta, tranne che per espletare alcune funzioni vitali, come ad esempio partorire o avere rapporti sessuali. Ci rendiamo conto che la riluttanza degli abitanti della Terra ad abbandonare le loro tute, verso la fine, accelerò enormemente il calo della popolazione.
Le nostre discussioni filosofiche. Dio creò questo pianeta. Su questo siamo tutti d'accordo, in un certo senso, sorvolando per il momento sulla definizione di concetti come Dio e creato. Perché si è dato tanta pena per creare la Terra se era Sua intenzione che poi venisse resa inabitabile? Creò forse l'umanità proprio a questo scopo, o essa esercitò il libero arbitrio creando le condizioni di ciò che poi si è verificato? Perché Egli dovrebbe cercare la vendetta contro la Sua stessa creazione? Forse è un errore affrontare la distruzione della Terra da un punto di vista etico e morale. Io penso che dobbiamo considerarla in termini puramente estetici, cioè un risultato artistico fine a se stesso, come un fouetté en tournant o un entrechat-dix, eseguiti senza bisogno di spiegazioni. Solo in questo modo è possibile capire come gli abitanti della Terra siano riusciti a concorrere allegramente al loro soffocamento.
È arrivata notizia che sull'altopiano del Tibet è stata scoperta una colonia di abitanti della Terra ancora in vita. Andiamo sul posto per vedere con i nostri occhi. Sospesi al di sopra di una vasta pianura rossa e desolata, vediamo grandi figure nere che si muovono lentamente. Sono abitanti della Terra che indossano tute di foggia strana? Scendiamo. Membri di altre squadre di bonifica sono già sul posto. Hanno circondato una delle grandi creature. Questa si muove in circolo, barcollando ed emettendo grugniti e grida inarticolate. Poi si ferma e ci affronta con decisione, come se volesse sfidarci ad afferrarla. La rovesciamo; continua a muovere le membra massicce, ma non riesce a rialzarsi. Dopo esserci brevemente consultati decidiamo di dissezionarla. Le placche esterne scivolano via facilmente. All'interno non troviamo altro che rotelle e fili luccicanti. Le membra non si muovono più, anche se i meccanismi all'interno ronzano e ticchettano ancora per un po'. La durata e la resistenza di queste macchine ci impressionano favorevolmente. Forse, in un lontano futuro, queste entità rimpiazzeranno completamente anche sugli altri mondi le forme di vita più deboli e fragili, come sembrano aver fatto sulla Terra.
Il vento. La pioggia. Le maree. Tutte le tristezze scorrono verso il mare.
QUESTA È LA STRADA
This Is the Road
di Robert Silverberg
No Mind of Man, 1973
Cullandosi pigramente con Shadow, sdraiato su di un soffice cumulo di pellicce nel confortevole scompartimento passeggeri dell'aerocarro, Leaf udì la pioggia che cominciava a cadere e si fece scuro in volto: era probabile che presto gli sarebbe toccato alzarsi e assumere la guida del carro, se era davvero quel genere di pioggia che lui temeva.
Erano passati nove giorni da quando i Denti avevano distrutto le province orientali. L'aerocarro, con a bordo i quattro che stavano fuggendo dai fieri appetiti degli invasori, scivolava lungo l'Autostrada del Ragno, a mezza strada tra Theptis e Northman's Rib diretto ad ovest, sempre ad ovest alla maggior velocità possibile. Il piccolo e nervoso Sting era alle energoredini, trasmettendo comandi onirici alle tre pariglie di incubi che trainavano il carro; il massiccio Crown era nel compartimento centrale, di sicuro intento a progettare la propria rivincita contro i Denti, perché era cosi che lui passava la maggior parte del tempo; questo permetteva a Leaf e Shadow di starsene tranquilli, ma non per molto. Ascoltando il furioso tamburellare della pioggia sui rotoli di pelle a grandi venature che ricoprivano il tetto, Leaf capì che quella non era una pioggia normale, bensì l'orribile pioggia purpurea, che ammorbava l'aria e faceva uscire a caccia i ragni senza gambe. Sting non sarebbe stato in grado di guidare il carro nella pioggia purpurea. Che seccatura, pensò Leaf, raggomitolandosi contro il corpo peloso e lucido di Shadow. E poco dopo udì lo sbuffare preoccupato degli incubi e sentì il carro sussultare e sbandare; sì, non c'erano dubbi: pioggia purpurea e ragni senza gambe. Il suo periodo di riposo stava per finire.
Non che avesse qualcosa da obbiettare a sobbarcarsi la sua normale parte di lavoro. Ma aveva finito il suo turno di guida appena mezz'ora prima. Si era guadagnato il riposo. Se Sting non era in grado di guidare il carro in quella bufera (come Shadow, anche lei non poteva farlo con la pioggia purpurea), allora toccava allo stesso Crown prendere le redini. Ma naturalmente Crown non avrebbe mai fatto niente del genere. Era il suo carro, ma lui non lo guidava mai. — Ho sempre avuto dei subrazziali che guidavano per me — aveva detto dieci giorni prima, mentre erano fermi nella grande piazza della Città Santa, con i fuochi dei Denti che ardevano nei sobborghi.
— Tutti i tuoi subrazziali sono fuggiti senza aspettare il loro padrone — gli aveva ricordato Leaf.
— E allora? Ci sono altri che possono guidare?
— Devo diventare il tuo subrazziale? — aveva chiesto Leaf in tono pacato. — Ricordati, Crown, io appartengo al ceppo della Pura Discendenza.
— Lo vedo dalla tua faccia, amico. Ma perché imbarcarci in discussioni filosofiche? Questo carro è mio. Gli invasori saranno qui prima del calar del sole. Se volete venire ad ovest con me, le condizioni sono queste. Se per te sono troppo amare da digerire, bene, allora resta qui e metti alla prova la tua fortuna contro la misericordia dei Denti.
— Accetto le tue condizioni — aveva risposto Leaf.
Così era salito a bordo, insieme a Sting e Shadow, con la clausola che loro tre si sarebbero sobbarcati la guida. Leaf si era sentito degradato: essere assunto come un subrazziale vincolato da un contratto, ma quale altra scelta gli restava? Era solo, e lontano dal suo popolo: aveva perduto tutto il suo denaro ed i suoi averi; sicuramente si sarebbe trovato ad affrontare la morte per mano delle orde di Denti che divoravano le terre orientali. Aveva accettato le condizioni di Crown. Un aristocratico conosce meglio degli altri l'arte del compromesso. Resisti all'umiliazione finché è possibile, certo, ma poi accetta, accetta, accetta. Il rifiuto di piegarsi di fronte all'inevitabile è volgare e melodrammatico. Leaf apparteneva alla casta più elevata, la Pura Discendenza, e ad essa veniva insegnato fin dall'infanzia ad essere arrendevoli, a piegarsi liberamente come salici al vento al volere dell'Anima. L'orgoglio è un peccato pericoloso, come lo è la testardaggine; ma peggiore di tutti è la stoltezza. Quindi lui faticava mentre Crown oziava. Ma vi erano limiti anche alla capacità di adattamento di Leaf, e lui sospettava che questi limiti sarebbero stati raggiunti molto presto.
La prima notte, quando solo due piccoli fiumi li separavano dai Denti, ed i tremendi fuochi della Città Santa rischiaravano il cielo, i fuggiaschi fecero una breve sosta per fare incetta di meloni in un campo abbandonato, e mentre se ne stavano accovacciati a rimpinzarsi di frutti succulenti e maturi, Leaf disse a Crown: — Dove andrai, una volta che sarai al sicuro dai Denti sulle sponde del Middle?
— Ho dei lontani parenti che vivono nelle Pianure — rispose Crown. — Andrò da loro e racconterò quello che è successo alla razza del Lago Scuro laggiù ad est, e li persuaderò a prendere le armi per ricacciare i Denti nelle terre selvagge e gelate da cui provengono. Un esercito di liberazione, Leaf, e io lo guiderò. — Sul viso scuro di Crown brillavano minuscole goccioline di succo. Lui si pulì con una mano. — Quali sono i tuoi piani?
— Non così grandiosi. Anch'io cercherò la mia gente, ma non per organizzare un esercito. Desidero solo arrivare al Mare Interno, dal mio popolo, e vivere di nuovo tranquillo tra di loro. Sono troppi anni che manco da casa. C'è un momento migliore per ritornare? — Leaf lanciò un'occhiata a Shadow. — E tu — le chiese. — Che cosa ti aspetti da questo viaggio?
— Io voglio solo andare dovunque vai tu — disse lei. Leaf sorrise. — E tu, Sting?
— Sopravvivere — rispose Sting. — Solo sopravvivere.
L'umanità aveva cambiato il mondo e quel mondo, così cambiato, aveva operato mutamenti nell'umanità. Ogni giorno il carro portava i viaggiatori a contatto con nuove e strane genti che si proclamavano discendenti dall'antico ceppo ancestrale, anche se magari respiravano acqua, avevano la pelle simile a cuoio conciato o molte paia di braccia. Umani, tutti umani, umani, umani. O almeno, insistevano nel ritenersi tali. Se ti ostini a considerarti umano, pensava Leaf, allora anch'io ti considererò umano. Ma vi erano gradazioni di umanità. Leaf, come appartenente alla Pura Discendenza si considerava più umano dei suoi tre compagni; e a volte era portato a considerare Crown, Sting e Shadow come qualcosa di molto diverso dagli esseri umani, anche se non lo riteneva un difetto. Tutte le creature viventi erano senza difetto, purché non facessero del male agli altri. A Leaf era stato insegnato il rispetto per tutte le specie di umanità, compresi i subrazziali. E i suoi compagni non lo erano certo, appartenevano alle caste intermedie, con un rango non molto inferiore al suo. Crown, il più grosso, il più forte e il più violento del gruppo, apparteneva alla stirpe del Lago Scuro. Shadow a quella delle Stelle Danzanti, ed era la più agile ed aggraziata, ed anche l'unica donna del gruppo. Sting, che discendeva dal ceppo del Cristallo Bianco, era il più rapido nel corpo e nella mente, il più vivace e volubile. Un curioso assortimento, pensava Leaf. Ma nei momenti estremi si accettano i compagni di viaggio che si trovano. Lui non si lamentava. Scoprì che gli era possibile convivere con tutti loro, anche con Crown. Persino con Crown.
Con uno scossone, il carro si fermò. Si udì il rumore degli zoccoli che schizzavano sul suolo intriso d'acqua; poi le grida acute e laceranti di Sting e il ruggito rabbioso e roboante di Crown; ed infine una serie di esplosioni sibilanti e soffocate. Leaf scosse il capo con tristezza. — Sprecare le munizioni per i ragni senza gambe...
— Forse stanno attaccando i cavalli — disse Shadow. — Crown è rozzo, ma non è uno stupido.
Leaf le accarezzò teneramente i fianchi lisci. Shadow cercava sempre di essere gentile. Lui non aveva mai amato una Stella Danzante, anche se la loro vista gli aveva sempre procurato piacere; erano creature snelle, dall'ossatura fragile, il torace piatto, ricoperte dalle caviglie al cranio crestato da una pelliccia folta e molto fine dello stesso colore del crepuscolo invernale. Shadow aveva una voce musicale e movenze aggraziate: era l'opposto di Crown.
Comparve Crown, una figura corpulenta che avanzava con movimenti bruschi tra le tende di perline scintillanti che circondavano il compartimento centrale. Lanciò a Leaf un'occhiata malevola. Anche nei suoi momenti di buonumore Crown dava l'impressione di essere corrucciato, un effetto probabilmente causato dal colore delle cornee, che erano di un rosso brillante, mentre quelle di Leaf e della maggior parte delle altre specie umane erano bianche. Il corpo di Crown era un blocco di carne, due volte più grande e più alto di Leaf, anche se Leaf non proveniva certo da una razza di bassa statura. La pelle era lucida, rosso-verdastra, simile a bronzo brunito; era completamente privo di peli e assomigliava alla massiccia statua di un gladiatore, più che ad un essere vivente. Le braccia arrivavano oltre le ginocchia e avevano alcune giunture in più, e le mani erano grosse come canestri; quegli arti erano superbi strumenti di morte. Leaf gli rivolse il più cordiale dei suoi sorrisi. Senza ricambiare il sorriso, Crown disse: — È meglio che tu riprenda le redini, Leaf. La strada si sta trasformando in una palude. I cavalli sono nervosi. È la pioggia purpurea.
In quei nove giorni, Leaf si era abituato ad obbedire ai bruschi ordini di Crown. Anche ora, si staccò da Shadow e fece l'atto di alzarsi in piedi per obbedire. Ma poi, improvvisamente, raggiunse i limiti della propria sopportazione.
— Il mio turno è appena finito — disse.
Crown lo fissò. — Questo lo so. Ma Sting non è in grado di guidare il carro in queste condizioni. E in più ho appena ucciso un bel po' di ragni senza gambe dall'aria minacciosa. E ne arriveranno altri se non ci muovimo subito da qui.
— E allora?
— Che cosa stai cercando di fare, Leaf?
— Può darsi che non me la senta di tornare là davanti tanto presto.
— Pensi che Shadow sia in grado di tenere le redini in mezzo a questo temporale? — chiese freddamente Crown.
Leaf si irrigidì. Vide l'ira addensarsi sul viso di Crown. Il gigante controllava a fatica la propria natura violenta: presto sarebbero nati dei guai, se Leaf avesse continuato a sfidarlo. Questo spirito di ribellione andava contro tutti i suoi principi, eppure si trovò ad insistervi, provando persino una sorta di perverso piacere. Decise di rischiare un confronto per vedere fino a che punto arrivasse la fermezza di Crown. Con impudenza disse: — Potresti provare a tenere le redini tu stesso, amico.
— Leaf! — sussurrò Shadow atterrita.
Sul viso di Crown apparve un'espressione omicida. Le guance nere e lucide si gonfiarono e si tesero: gli occhi scintillarono come metallo fuso, le mani si chiusero e si aprirono, si chiusero e si aprirono, cercando furiosamente la presa. — Che razza di cretinate stai dicendo? Hai un contratto, Leaf, a meno che tu non abbia improvvisamente deciso che uno di Pura Discendenza non è obbligato a tener fede...
— Risparmiami i pregiudizi di classe, Crown. Non sto usando la Pura Discendenza come un pretesto per schivare il lavoro. Sono stanco e il mio riposo me lo sono guadagnato.
Sottovoce, Shadow disse: — Nessuno ti nega il riposo, Leaf. Ma Crown ha ragione quando dice che io non sono in grado di guidare con la pioggia purpurea. Lo farei, se ne fossi capace. E neppure Sting può farlo. Resti solo tu.
— E Crown — disse Leaf ostinato.
— Ci sei solo tu — mormorò Shadow. Era da lei non prendere mai posizione, cercando sempre di mediare. — Avanti, Leaf. Prima che nascano dei guai. Di solito non ti comporti così, non è nel tuo stile.
Leaf si sentiva obbligato a seguire quella linea di condotta, anche se era pericolosa. Scosse la testa. — Tu, Crown. Guidi tu.
Con voce strozzata, Crown disse: — Stai tirando troppo la corda. Abbiamo un contratto.
Lo spirito di ribellione della Pura Discendenza si era esaurito, adesso. — Contratto? Ero d'accordo di fare il mio turno di guida, non di essere privato del riposo non appena...
Crown tirò un calcio ad uno sgabello di vimini, mandandolo in pezzi. La sua rabbia stava per esplodere. Le vene del collo si gonfiarono e pulsarono. Riuscendo ancora a controllarsi, disse: — Esci di qui ora, Leaf, o, per l'Anima, ti spedirò al Tutto-che-è-Uno!
— Magnifico, Crown! Uccidimi, se senti di doverlo fare. E poi chi guiderà per te questo maledetto carro?
— Ci penserò dopo.
Crown avanzò, deglutendo, e serrando i pugni.
Shadow diede a Leaf una violenta gomitata nelle costole. — La faccenda sta oltrepassando i limiti del ragionevole — gli disse. Lui era d'accordo. Aveva messo alla prova Crown e aveva avuto la risposta che cercava, cioè che Crown non avrebbe ceduto; ora era il momento di smettere; perché Crown era capace di uccidere. La massiccia creatura del Lago Scuro torreggiò sopra di lui sollevando le enormi braccia come se volesse abbatterle sul capo di Leaf. Lui alzò le mani, in un gesto di sottomissione più che di autodifesa.
— Aspetta — disse. — Fermati, Crown. Guiderò.
Le braccia di Crown si abbassarono ugualmente. Lui riuscì a fermare a metà il corpo mortale, perdendo l'equilibrio e appoggiandosi alla fiancata del carro. Si raddrizzò goffamente. Scosse piano la testa. Con voce bassa e minacciosa disse: — Non ci riprovare mai più, Leaf.
— È la pioggia — disse Shadow. — La pioggia purpurea. Tutti fanno cose strane quando c'è la pioggia purpurea.
— Sarà così — disse Crown, lasciandosi cadere sull'accogliente ammasso di pellicce mentre Leaf si alzava. — La prossima volta saranno guai grossi. Ora muoviti, vai davanti.
Con un cenno di assenso, Leaf disse: — Vieni davanti con me, Shadow.
Lei non rispose. Un guizzo di paura lampeggiò nei suoi occhi.
Crown disse: — Il guidatore guida da solo. Questo lo sai, Leaf. Stai ancora mettendomi alla prova? Se è così, dillo e io saprò come trattarti.
— Voglio solo un po' di compagnia dal momento che devo fare un turno extra.
— Shadow resta qui.
Ci fu un istante di silenzio. Shadow tremava. — Va bene — disse Leaf alla fine. — Shadow resta qui.
— Ti accompagno per un pezzetto — disse lei lanciando una timida occhiata verso Crown. Lui si rabbuiò ma non disse nulla. Leaf uscì dallo scompartimento passeggeri e Shadow lo seguì. Fuori, nello stretto passaggio che conduceva alla cabina centrale, Leaf si fermò, scosso e tremante, e la strinse a sé. Lei premette il proprio corpo contro il suo e si abbracciarono intensamente, furiosamente.